Carla ha trentacinque anni ed è in
crisi
col
marito. La loro unione sta avviandosi alla parola fine perchè è
una storia che, così com'è, non ha più senso. E' come
se vivessero su due strade diverse, forse parallele, ma che non si incontreranno
più e lei lo sa, anche se è doloroso accettare questa sconfitta.
La vive così, come una sua incapacità, una sua mancanza.
Le dico di cercare di vivere questa crisi
come un passaggio, ma lei si limita a sorridere e a scrollare il capo.
Mi ritiene esaltata e visionaria, non accetta di proiettare il suo presente
così doloroso in un ipotetico futuro glorioso. Ed ha ragione, lo
si può fare solo di testa, ma il cuore non ce la fa a partecipare.
E quando cuore e cervello non sono collegati, si è desti a metà.
E poi non è la crisi in sè
ad essere salutare ma la sua elaborazione.
E' un po' come la legge americana "Violence
Against Women Act", per tutelare le donne contro i reati di violenza. Una
legge nata dalla triste considerazione che le donne in America, se
hanno subito violenza, sono spesso costrette a cambiare stato per sfuggire
alle minacce o alla pubblica curiosità. E le battered women, vittime
di violenze fisiche, in America sono milioni. Immaginiamo ora che cosa
può succedere ad una donna che continui a fuggire, cambiando magari
identità e soffocando anche ai suoi stessi occhi il sopruso subito.
Rimarrebbe schiacciata nel tunnell dell'angoscia, regalando al \mondo il
suo sorriso più smagliante.
Ecco, è quello che ci può
succedere se non siamo in grado di elaborare la nostra crisi. Ne rimaniamo
intrappolate, piangendo su noi stesse , oppure facciamo finta di niente,
cambiando identità psicologica. Non ci accettiamo,insomma, per quello
che siamo, ma continuiamo a fuggire da noi stessi.
La parola crisi ha in sè, nella sua
radice, quella necessità di trasformazione di cui sto parlando.
Dal greco krino significa divido, metto di qua e di là. E così
av viene, ci si sente divisi, lacerati interiormente, come se una
parte di noi andasse in una direzione e l'altra in quella opposta.
Carla vorrebbe andarsene, capisce che la
sua vita accanto a quel marito è a un punto morto, ma contemporaneamente
si sente frenata da una serie di condizionamenti che le impediscono di
scegliere serenamente. E questa è una fortuna. Se i divorzi non
fossero affiancati dalla crisi dei coniugi, sarebbero soltanto un fallimento
.. La sofferenza che si accompagna, invece, a scelte del genere, è
garanzia della nostra salvezza, della nostra possibilità di evoluzione,
a livello sociale e a livello individuale.
Con questo non sto certamente a fare un’apologia
della sofferenza in chiave cattolica: non si tratta di puntare il dito
sul concetto di colpa e di espiazione ma su quello di trasformazione: per
poter andare avanti è necessario separarci da quello che non ci
serve più: quando il terreno iincomincia a franare sotto ai nostri
piedi, è ora di cercare un altro terreno su cui camminare. Quando
il Regno in cui abitiamo incomincia a trasformarsi in prigione, è
necessario metterci in cammino alla ricerca di un tesoro che ci permetta,
al ritorno, di allargare i confini del regno. Non serve a nulla rimanere
dietro alle sbarre a piangere. Non serve a nulla se si prolunga troppo
il tempo della sofferenza. Ma se al posto di piangere facciamo finta di
niente, e ci raccontiamo che le sbarre non sono sbarre ma stelle filanti,
il dolore ci corroderà dall’interno e il nostro regno rimarrà
per sempre stretto e angusto. Ogni spostamento verso l’esterno, ogni gradino
sul quale decidiamo di salire implica in noi un mutamento profondo e un
attento livello di consapevolezza: che cosa dobbiamo portare co noi e che
cosa è meglio abbandonare? Crescere significa anche dover scegliere
e la scelta è spesso dolorosa: ecco perché la viviamo come
crisi. Inoltre c’è sempre in noi quel contrrasto tra la spinta evolutiva
del nostro spirito che ci protende verso l’alto e l’inerzia della materia
che ci mantiene ancorati al terreno. Anche questo è motivo di sofferenza.
Ma tutto questo insieme significa accettare di crescere.
Susanna Garavaglia