…La guerra camuffata da "intervento di polizia a scopi umanitari" che è stata scatenata dalla Nato si sta dimostrando un formidabile terreno di prova di quell'apparato egemonico occidentalista di cui denunciamo, da anni, i comportamenti e gli obiettivi.
Non intendiamo riferirci solamente al carattere di laboratorio militare della vicenda, quello che vede la sperimentazione ed il consumo su ampia scala di bombe al grafite e a frammentazione, di proiettili all'uranio impoverito, di missili più o meno "intelligenti", l'applicazione di nuove tattiche di intervento aereo, il ricambio di arsenali in via di obsolescenza e la correlativa crescita esponenziale di un comparto economico - quello della produzione e della vendita delle armi - che ha anche implicazioni lobbystiche rilevanti in ambito politico.
Ci interessa assai di più mettere in evidenza come questa sia la prima guerra comunicativa svoltasi in Europa. Più che un avvenimento militare (le cui ragioni sarebbero del resto irrisorie, giacché nessun atto ostile dell'aggredito ha messo in pericolo la sicurezza interna o esterna degli aggressori) o politico (la prevedibile sconfitta serba non potrà corrispondere ad alcun esemplare successo di modelli alternativi, essendo l'azione Nato sostenuta all'unisono da governi liberisti, socialdemocratici o prossimi all'autoritarismo, come nel caso della Turchia), la crociata per il Kosovo è un evento metapolitico di primaria importanza, un'occasione di straordinaria importanza di dispiegamento della potenza suggestiva dei mezzi di comunicazione di più ampia portata, uno stimolo al perfezionamento delle tecniche di propaganda, un ulteriore veicolo di normalizzazione diretto ad isolare e delegittimare le voci che dissentono dal dogma secondo cui quello insdtaurato sarebbe il miglire dei mondi possibili.
Questa guerra, inoltre, ci pone di fronte alle più avanzate prove tecniche d'ibridazione tra forme di regime cui ci sia mai stato dato di assistere:
ci mostra come sia possibile coniugare le regole formali del gioco democratico con una gestione dell'informazione che disconosce il pluralismo, esibendone una mera caricatura, e di fatto punta ad un controllo del conformismo mentale delle masse che ha ben poco da invidiare alle esperienze totalitarie.
Soltanto tre anni orsono, buona parte della stampa italiana si è stracciata le vesti per la nostra denunzia del formarsi di un'egemonia ideologica liberale,non meno intollerante e settaria di quella di segno marxista che l'aveva preceduta, nella classe intellettuale del nostro paese ( e di molti altri inclusi nella sfera "occidentale").
Figuriamoci che cosa accadrà ora, se rincariamo la dose della critica aggiungendo che la dittatura liberale sulle intelligenze mette in atto processi di controllo totalitari della formazione dell'opinione pubblica.Come si possono mettere fianco a fianco, ci verrà irosamente contestato, regimi che fanno della libertà e dei diritti individuali la propria bandiera e modalità d'azione che hanno nella negazione della facoltà di espressione il proprio presupposto?
E' scandaloso e insensato il solo pensarlo. Si tratta di sciocchezze, di esagerazioni faziose…E giù a suon di indignazione e citazioni tronche, a meno che non prevalga l'ancor più efficace metod del silenzio.
Eppure, l'ibridazione di cui abbiamo fatto cenno è già in atto, e l'eco degli avvenimenti bellici lo sta dimostrando.
Come a tutti è noto, l'equiparazione del dissenso ad una forma di bizzarria individuale confinante con la follia era una pratica corrente nell'Unione Sovietica del dopoguerra, dove il ricovero in ospedali psichiatrici servito a togliere di mezzo più di un libero pensatore. Tecnicamente, era già un passo avanti in materia di strumenti di coercizione: ai tempi di Stalin, di Hitler e di qualcuno dei loro imitatori si preferivano il carcere e l'eliminazione fisica. Anche ai tempi di Breznev, tuttavia, non si disponeva dei ritrovati tecnologici di cui gli operatori della comunicazione ggi possono fare uso.
La televisione aveva già cominciato, al di qua della "cortina di ferro", a diventare un esemplare mezzo di condizionamento dei cervelli, e se ne accorse Solzenicyn quando, nell'allora celebre ed oggi dimenticato discorso di Harvard, paragonò la sottrazione del microfono nell'emisfero occidentale all'internamento nell'Est Europa.: due criteri di pari efficacia per eliminare le voci discordi. Ma eravamo lontani dalla saturazione dei messaggi via etere che oggi conosciamo.
Con l'affidamento della gestione del tempo libero agli schermi e a chi li occupa - e, in misura ben più ridotta, agli altri canali informativi e ricreativi di massa - il potere di addomesticamento della coscienza collettiva si è moltiplicato, e le tecniche di condizionamento "dure" sono finite fuori mercato, dimostrandosi superate nel rapporto costo/benefici.
Perché mai si dovrebbe reprimere laddove, per ottenere gli stessi esiti, si può persuadere?
Il concetto di manipolazione è di difficile definizione, si resta a confutazini ed esorcizzazioni, quando non a polemiche consite di irrisione; quello di coercizione, specialmente se fisica, non lascia adito a dubbi. Orwell non aveva sbagliato trama in 1984, ma oltre a cmmettere un errore di data, si è equivocato sulle immagini da accompagnare al testo. I regimi che è d'suo chiamare totalitari sono scomparsi.
Nelle democrazie ormai senza sfidanti la tentazione dell'onnipotenza non è svanita, ma si è stemperata su più soggetti - non più capi assoluti o piccoli gruppi di vertice, ma classi politiche articolate - e ha assunto altre forme.
Non esistono ideologie di stato obbligatorie: al loro posto ci sono mentalità rigorosamente consigliate. Le idee sgradite non vengono poste fuorilegge, ma fuori dai circuiti che consentono di farle circolare. Il pluralismo non è represso; è interpretato selettivamente, usando l'arma della delegittimazione pilotata.
La convinzione che il ridicolo ed il silenzio uccidono assai più della violenza si è, a ragione, affermata. Le discriminazioni non sono più plateali, ma sottili, insinuanti, quotidiane, personalizzate.
Quel che conta non è proibire al dissidente di esprimere le sue opinioni, bensì impedirgli di raggiungere una platea di una qualche consistenza.
E quale metodo è più adatto allo scopo del non invitarlo ad esprimersi in televisione (o di relegarlo a comparsate magari messe subito in ridicolo da qualche accreditato conduttore di talk shows?), del non concedergli spazi o diritti di replica sui giornali, di censurarne sistematicamente prese di posizione, commenti, critiche?
E se le idee non allineate non trovano canali di manifestazione, non può ovviamente crearsi alcuna richiesta di ascoltarle, alcuna aspettativa; e dal momento che, se manca la domanda, non ha senso un'offerta (di spazi), la chiusura non ha il benché minimo sapore di censura: che motivo ci sarebbe di ospitare di fronte a milioni di settatori chi non rappresenta altro che se stesso?
Il meccanismo, di un'efficacia che in altri tempi si sarebbe definita infernale, ha dominato la rappresentazione massmediale della guerra balcanica, dove la coalizione occidentale è stata presentata come altruista riparatrice di torti e l'oggetto degli attacchi aerei derubricat a staterello dominato da un despota abietto e popolato da un mix di individui maneschi o ingenui, a seconda dei casi infiammati o ingannati dalle sirene del nazionalismo.
Dove le immagini televisivi delle colonne di profughi provocate dai bombardamenti sono state sfruttate come "prova" della curedeltà del nemico e quelle, assai meno ripetute, delle vittime degli "errori" degli aerei Nato - gli ormai celebri danni collaterali delle incursioni - sono state sommerse dai commenti giustificativi ("è la guerra", no? E la guerra chi lha voluta, se non Milosevic?).
Dov'è fustigata quotidianamente la retorica del regime di Belgrado - denunciandone l'inconsistenza da un lato, salvo poi distruggere sedi, ripetitori e fonti energetiche di radio e televisioni, oscurare satelliti e persino ordinare la disattivazione dei collegamenti in rete telematica per limitarne l'efficacia dall'altro - e si è celebrata quella occidentalista, senza dire una parola sui silenzi con cui la Nato copre le proprie perdite, che ha detta di una rivista specializzata come Strategic and Foreign Affairs sono tutt'altro che irrilevanti.Dove una guerra civile alimentata da opposte intolleranze nazionaliste, e dai connessi timori, è stata gabellata per persecuzione di una parte sull'altra, e delle forti turbolenze causate da più di dieci anni dalle rivendicazioni albanesi - che pure, ai tempi, sono state oggetto di reportages e commenti delle stesse fonti giornalistiche e audiovisive - non si revoca neppure una vaga memoria, quasi che il "caso Kosovo" fosse stato creato a tavolino dal Saddam di Belgrado per preservare il proprio potere. E dove si fanno apparire i non convinti dell'opportunità dei raids come vili e piagnoni e gli opositori aperti del conflitto come un pugno di estremisti incancreniti dalle passioni (dal vizio?) dell'ideologia.
Sarebbero ovviamente molti gli esempi di questo comportamento, che solo un eufemismo potrebbe far definire "sbilanciato", dell'apparato dei media, e dispiace che in esso siano rimasti impigliati, insieme ad una congerie di modesti comprimari, anche persone di indubbia levatura intellettuale (uno per tutti: il sociologo Sabino Acquaviva, che sul "Corriere della Sera" non ha esitato a definire "adulto" il comportamento di quegli italiani che accettavano "consapevolmente" il carico psicologico della guerra, relegando nell' "infantilismo" i pacifisti. Ci risentiremo er un aggiornamento del giudizio qualora una scheggia di missile dovesse rimbalzare su un isolotto al largo delle coste della penisola…).
Limitiamoci a uno di essi: l'imputazione di pregiudizio antiamericano che è stata rivolta a tutti coloro che si oppongono alla sedicente azione polizia guidata da Washington.
Dovrebbe apparire chiaro che, in questo frangente, gli Stati Uniti non rivestono i panni dell'aggredito, bensì quelli dell'aggressore. Per ribaltare l'inequivocabile dato di fatto, si insinua che la loro azione non è criticata per ciò che è, ma per effetto di antiche idiosincrasie. Accusa ovviamente non provabile, dato che gridare "al lupo" in presenza del lupo non è poi così insensato, ma che offre il destro ad un processo alle intenzioni.
Che un pregiudizio sia in atto sullo sfondo dell'aggressione Nato a ciò che resta della Jugoslavia è fuor di dubbio; ma si tratta, con ogni evidenza, di un pregiudizio filoamericano, in base al quale gli Usa, buoni per antonomasia, non possono essere accusati di alcuna azione negativa, e men che meno di azioni censurabili (ricordate Giulio Andreotti nel dibattito parlamentare sull'intervento militare Desert Storm diretto contro l'Iraq, quando si indignò che si potessero sospettare gli Stati Uniti, che avevano generosamente immolato le vite di tanti loro ragazzi per liberare l'Europa dalla barbarie nazifascista, di coltivare mire sul petrolio kuwaitiano?).
Ma siccome la miglior difesa è l'attacco, per far dimenticare questo particolare si parte a testa bassa, con smodato uso di sillogismi:
Se si critica l'azione bellica della Nato, lo si fa per attaccare gli Usa; se ci se la prende con i nordamericani è perché si odia tutto ciò che rappresentano; e poiché essi rapresentano il faro della libertà, li si critica perché si ha nostalgia delle dittature; e via all'infinito.
Lo spartito è consunto, ma attrae sempre gli habitués di questo interminabile concerto. Peccato che si dimentichi, fra l'altro, che i difensori d'ufficio dei kosovari hanno dimostrato, nel corso della loro storia, un atteggiamento piuttosto diverso verso la pulizia etnica, quando a giovarsene erano loro stessi: il massacro dei pellerossa sarà cosa d'altri tempi, ma resta d'insegnamento.
E peccato anche che, in un uso così strumentale, il termine pregiudizio si svuoti di ogni significato, diventando sinonimo di un'opinione sgradita emessa da altri. Ma questi sono dettagli. Quel che conta è che il messaggio passi, "fori il video".
Ciò è sicuramente accaduto: non bisogna farsi illusioni. La martellante propaganda di due mesi non può non aver prodotto frutti, tanto più che a sostenerla è stata lo schieramento, trasversale rispetto al sempre più malconcio discrimine sinistra/centra/destra, di tutti quei soggetti politici e sociali che, per convinzione o per tornaconto, si sono allineati alla prospettiva di vivere in un mondo controllato dal gendarme planetario a stelle e striscie, accontendandosi del fatto che all'Europa del Nuovo ordine mondiale setterà un rango elevato nel novero dei collaboratori (qualche cultore dei ricorsi storici forse potrebbe preferire l'etichetta di collaborazionisti, e non saremo noi a dargli torto).
Si dà il caso però che, nelle pieghe del conflitto e dietro la sua facciata, si annidino alcuni aspetti della realtà suscettibili di turbare i propositi dei registi dell'operazione militare atlantista e della sua campagna di sostegno.
Questo non è infatti solo un conflitto innescato per completare il processo di colonizzazione dell'Europa occidentale ai voleri statunitensi ed estenderne i confini; è anche l'esibizione muscolare di un'"alleanza" i cui presupposti stanno vacillando: non solo perché non esiste più il nemico d'Oriente da contenere, ma anche e soprattutto perché gli scenari del postbipolarismo stanno rivelando che gli interessi degli Usa e dell'Europa non soltanto non convergono ma spesso si oppongono, come i crescenti contenziosi commerciali e le diffidenze americane verso l'euro ampiamente lo dimostrano.
Non è solo una dimostrazione al Vecchio continente della sua inferiorità strategico-militare rispetto al padrino d'oltreoceano, ma anche una ferita aperta nel cuore dell'Europa per impedirne l'aggregazione unitaria ed indipendente: e può darsi che serva a far capire agli europei che, per la loro sicurezza, è assai più essenziale impostare un rapporto di buon vicinato con la Russia e dotarsi di una difesa autonoma che non continuare ad andare a rimorchio degli Usa e dei loro progetti.
Non è solo un inusitato spettacolo di forza armata, ma anche la fonte di danni ecologici incalcolabili, di un inquinamento che potrebbe avere effetti letali per le popolazioni balcaniche ( è delle ore in cui scriviamo l'allarme lanciato dalla Romania sulla grave contaminazione delle acque del Danubio ) e per quelle dei paesi vicini, Italia inclusa, mentre comporterà conseguenze trascurabili per gli artefici primi dei bombardamenti, che vivono nell'altro emisfero, ben protetti dall'enorme distanza dal teatro delle operazioni.
E, anche se prevedibilmente negli anni a venire vedremo i laboratori Usa foraggiati dal denaro pubblico impegnati a smentire qualsiasi analisi della catastrofe ambientale sgradita ai committenti, può darsi che questa constatazione possa rimettere in funzione qualche capacità di giudizio ottenebrata dall'offensiva via etere del fronte bellicista.
Non tutte le considerazioni sulle ricadute metapolitiche della guerra nei Balcani devono avere del resto avere segno negativo.
Se non altro essa, oltre a rivelare ai più provvisti di senso critico quanto limitato sia il concetto di diritto di espressione adottato nelle democrazie liberali, ha fatto trasparire in più punti il cinismo ripugnante dei presunti difensori delle cause umanitarie.
Si pensi al modo in cui i mezzi di comunicazione hanno costruito un'immagine ad hoc del nemico, attingendo persino ai pretesti psicoanalitici, con dovizia di citazioni dei parenti suicidi e pazzi di Milosevic: una risalita su per i rami della genealogia che sfida le imrese dei cacciatori di antenati ebrei in funzione nel Terzo Reich.
O al modo in cui, sempre meno moderatamente, si è fatto ricorso all'impiego delle motivazioni economiche per placare i dubbi insorti di fronte alla condotta di guerra della Nato, evocando le grandi opportunità di guadagno che le commesse per la ricostruzione della Jugoslavia apriranno a migliaia di industrie occidentali una volta concluse le ostilità; e quanto più si distrugge, ovviamente, tanto più si deve investire nel risanare.
Che per la civiltà liberale americanomorfa il denaro conti più della vita - e non solo, come già si sapeva, della qualità della vita - non è ormai più un mistero per nessuno.
Un altro elemento incoraggiante è l'impatto disgregante che il conflitto ha avuto sulle tradizionali appartenenze politico-culturali, modellatesi su antagonismi vecchi di cinquanta o ottant'anni e stancamente trascinate sino a questa fine secolo da un impasto di timori e pigrizie.
La constatazione che la storia non è finita e che gli orizzonti di pace, benessere e progresso promessi dall'ideologia della fine delle ideologie restano lontani si sta traducendo in stimolo al ripensamento di identità ormai logore.
Mettendo da parte le convulsioni degli ambienti estremisti di qualunque segno, che nella loro cronica sguaiataggine mentale e stilistica risultano da sempre funzionali al mentenimento dello status quo, non sono pochi i segni di questo distacco dal passato.
Sinistra e destra hanno dimostrato, più platealmente che in altre occasioni, la loro sudditanza all'egemonia statunitense.
La destra - malgrado il grottesco strabismo di alcune frange "sociali" caratterizzate dall'eterna vocazione a fungere da foglia di fico delle altrui politiche, che hanno avuto la sfrontatezza di ironizzare sulla sinistra "guerrafondaia" mentre in casa loro si implorava ad ogni pié sospinto l'invasione per via di terra della Serbia - ha dato prova di una piena e scontata soggezione politica, non avendo ormai altra carta da giocare se non quella di sventolare il modello made in Usa come versione corretta e preferibile del liberalismo Italian style
La sinistra ha esibito invece una altrettanto prevedibile soggezione psicologica ai voleri nordamericani, ennesimo capitolo di un'espiazione di colpe passate che si risolve in un abiura senza via d'uscita, speculare a quella della sua controparte.
I residui del centro, malgrado gli stimoli del Papa e più in generale degli ambienti cattolici, non hanno saputo fare altro che barcamenarsi, avvinghiandosi a posizioni di basso profilo per non cadere nel mirino delle accuse di disfattismo.
Che tutto ciò sia dispiaciuto a più d'uno lo dimostrano gli imprevisti silenzi di intellettuali abitualmente propensi a una persino eccessiva loquacità, i farraginosi dietrofront di alcuni sacerdoti dell'etica pubblica prima pronti a benedire la crociata per i diritti umani e poi perplessi er l'andamento delle operazioni aeree, gli imbarazzi di tanti di quei pochi che in buona fede hanno sperato, negli scorsi anni o decenni, di portare un contributo al miglioramento del mondo in cui vivono militando per questo o quel progetto di sviluppo della società.
Poichè la costruzione di alternative praticabili alle miserie morali in cui è sprofondato il nostro presente esige un punto di discontinuità rispetto alle linee di scontro che hanno consentito alla situazione di giungere allo stadio in cui oggi si trova, questa delusione parallela serpeggiante in ogni campo non può che essere accolta da noi con favore.
Non è un caso che l'Appello per il no alla guerra che abbiamo sostenuto abbia raccolto consensi negli ambienti più diversi, e che gli incoraggiamenti a proseguire sulla strada intrapresa ci siano venuti da persone delle formazioni più diverse (pochi, va detto senza alcun compiacimento, da "compagni di strada" di altre epoche: il che è un dato di fatto sul quale chi ci legge dovrebbe meditare con attenzione).
Ovviamente, non ci illudiamo che da questa graduale decomposizione di appartenenze calcificate possa sorgere dall'oggi al domani un nuovo sistema di convergenze. Né abbiamo parole d'ordine già confezionate da offrire a un simile ipotetico fronte. Ci basta constatare che già oggi, su temi cruciali, è possibile impostare una presenza articolata di voci non omologate:
è un primo passo avanti indispensabile per opporsi a quella dittatura di un pensiero unico di cui oggi soltanto le menti prevenute o sprovvedute possono non paventare i rischi…