L'INCHIESTA :
LE NOSTRE MAGDALENE
DI RITA PENNAROLA
In un Paese che tuttora accoglie nel suo ordinamento istituzionale la figura degli
Educandati femminili, siamo andati a cercare tutti i luoghi e le forme in cui, ancora
oggi, la donna italiana
si ritrova a dover scontare il 'peccato originale'. Un universo sofferto e composito,
fatto di collegi per ragazze bene, ma anche di case di correzione. E poi carcere,
prostituzione, figure di suore che quasi sempre da carnefici diventano vittime. Dopo il
film choc di Peter Mullan, eccole.
Difficilmente riusciremo a dimenticare i loro occhi. Il terrore degli innocenti che
balena dietro gli sguardi. La vergogna di chi è senza colpa. La storia, quella raccontata
nel film Magdalena del regista irlandese Peter Mullan, trionfatore all'ultimo Festival di
Venezia, non è meno gravida d'ingiustizia e crudeltà rispetto a quelle proposte negli
anni da Ken Loach, che di Mullan è stato il maestro. Solo che questa volta la vicenda di
Bernadette, Margaret, Rose e le altre, detenute nelle case di correzione per ragazze
(esistite in Irlanda fino al 1996) ci toccano più da vicino. Perché anche nella
civilissima Italia la storia delle donne porta ancora nel profondo il marchio d'una
società sessuofobica, lo spettro imposto del peccato originale, l'ombra di immotivati
turbamenti, il ricordo di adolescenze vissute nel perbenismo delle comunità borghesi, nei
salotti delle città, nelle parrocchie dei piccoli comuni, nei vicoli, nelle case. Siamo
andati a cercare quel che resta delle nostre "magdalene". Quelle che portiamo
ancora dentro di noi, nel ricordo. E quelle che tuttora incredibilmente vivono, nel nostro
Paese, al limite di questa assurda condizione.
Le "educande"
Il principio secondo cui occorreva vigilare sulla moralità delle giovani e
soprattutto su quel "frutto proibito" capace di destabilizzare gli assetti
sociali precostituiti lo si ritrova tutto, ancora oggi, nel termine Educandati Femminili,
fondati a inizio Ottocento con quei 'santi' scopi e tuttora presenti nel Paese in numero
di sette. Il più importante, che è alle dipendenze dello Stato, ha sede a Napoli in
piazza Miracoli ed ospita attualmente 102 fanciulle.
"Fino a non molto tempo fa - osserva Samuele Ciambriello, storico animatore di
associazioni in favore di deboli e reclusi - gli Educandati femminili italiani avevano,
almeno sulla carta, compiti di quel tipo". Ma tuttora, insieme a un certo numero di
giovani donne che vivono negli Educandati perché provenienti da famiglie impossibilitate
a mantenerle agli studi, questi istituti ospitano soprattutto le ragazze considerate dai
genitori, o magari dal parroco del paese, troppo "vivaci" e bisognevoli,
perciò, di regole particolarmente rigide.
Nelle classi abbienti queste giovani vengono affidate in genere ad Educandati privati,
quasi sempre di natura religiosa o parareligiosa, ma comunque ubicati in austere residenze
patrizie. E' il caso, ad esempio, dell'ottocentesco Palazzo Archinto, sede del Collegio
delle Fanciulle, nel cuore di Milano, o del convento che accoglie, a Palermo, l'Educandato
Maria Adelaide.
Istituito con decreto napoleonico nel 1808, il Collegio delle Fanciulle dipende oggi
dal ministero della Pubblica Istruzione, ma non rinuncia a quello che viene definito il
suo "fine prioritario": "la formazione globale delle alunne, attraverso la
trasmissione di valori e di ideali che possano dare pienezza di significato alla loro
vita". Nobili obiettivi, naturalmente, soprattutto se la retta pagata dai genitori é
consistente, non meno dei riguardi che le istitutrici - figura professionale tuttora
presente negli Educandati italiani - riservano alle giovani rampolle-bene.
Più difficile la vita quando in istituto ci si ritrova proprio per le drammatiche
condizioni economiche o sociali della famiglia d'origine. Eloquente la testimonianza di A.
F. , recentemente uscita da un educandato toscano cui afferiscono ragazze provenienti da
tutta la penisola, Campania compresa: "Ci sentivamo - scrive la giovane in una
lettera confessione pubblicata su Internet - come prigioniere, incapaci di poter dare
sfogo ai nostri desideri e invidiavamo le esterne che, dopo l'orario scolastico, potevano
tornare a casa". Una giornata scandita da orari rigidi: alle 7,30 la sveglia, alle 8
colazione, alle 8,30 in classe, poi il pranzo e i compiti. "Alle 21,30 in punto
dovevamo trovarci a letto perché alle 22 passavano le istitutrici a spegnere la
luce". Ma non sempre si riusciva a dormire: "quando il giro di controllo era
terminato spesso ci mettevamo a parlare, sottovoce, perché altrimenti le istitutrici
tornavano e si arrabbiavano moltissimo".
Giorni grigi. Come la divisa da indossare: "quando ci portavano all'esterno, ad
esempio a teatro, la divisa era obbligatoria e le persone che ci vedevano ci guardavano
con occhi stupiti e noi provavamo un forte imbarazzo...". A. F. ce l'ha fatta. Pur
raccontando di essersi sentita tante volte "in prigione" e confessando d'aver
provato "un senso di abbandono enorme", oggi quel passato non le impedisce di
condurre una vita serena. E' andata peggio ad alcune sue compagne: "ricordo con
tristezza - scrive - il suicidio di un'amica che aveva molti problemi con la famiglia e
non riusciva a parlarne". Ma non dimentica nemmeno "l'allontanamento dal
collegio di una ragazza molto dolce che però faceva uso - così vociferavano - di
stupefacenti". Storie che "hanno segnato per sempre il mio carattere".
"Il problema dell'ascolto - dice Amelia Izzo, fondatrice di alcune tra le più
importanti case famiglia della Campania, al confine tra Sannio e Casertano - é al primo
posto nell'incontro coi giovani. Ma richiede, oltre alle doti umane, anche una rigorosa
preparazione professionale, che certo non si improvvisa". Proprio per questo Amelia,
diventata ormai un punto di riferimento anche a livello nazionale sui temi educativi, sta
attivando in collaborazione con l'università di Napoli corsi specifici per la formazione
di operatori nei centri di accoglienza. Strutture che lei interpreta come autentici
"ponti" tra le famiglie d'origine ed il giovane in difficoltà, tanto é vero
che la più recente "casa" di Amelia - la quinta, che aprirà i battenti fra
qualche settimana a Caianello, tra Casertano e basso Lazio - si chiamerà proprio CMF,
ovvero Centro Minori e Famiglia. Una delle case ospita invece, già da tempo, le
adolescenti che hanno subito abusi sessuali o altre violenze in famiglia. A loro Amelia
dedica un ascolto particolare: "Sono storie difficili, dure anche da ricordare.
Abbiamo avuto il caso di una ragazza abusata che era stata 15 anni in un istituto
religioso senza essere mai riuscita a confidare il suo dramma, ad aprirsi, proprio perché
spesso mancavano figure in grado di stabilire una comunicazione vera, di ricostruire quel
rapporto di fiducia con la vita che si é spezzato. E di saper ascoltare".
"Vuoi diventare una puttana come tua madre?". Era la frase che prima, in una
diversa struttura, si sentiva ripetere spesso dalla suora un'altra giovane ospite della
casa famiglia di Piedimonte, oggi perfettamente inserita nella comunità. "Il
problema degli istituti religiosi - osserva ancora Izzo - non é diverso da quelli laici
ed attiene, come sempre, al livello della formazione. Non é detto, insomma, che per il
solo fatto di essere suora una persona sia in grado di svolgere un compito così delicato
come quello che richiede la ricostruzione delle lacerazioni nell'animo di una ragazza o,
più in generale, di un minore".
Un parere pienamente condiviso anche da Pasquale Colella, docente di Diritto canonico
all'università di Salerno e fondatore della rivista cattolica Il Tetto: "film come
quello di Mullan ci mostrano il frutto vero della sessuofobia presente in un certo mondo
cristiano, e non solo cattolico". Un guasto che, secondo il professore, in qualche
modo é a monte: "le religiose venivano spesso mandate allo sbaraglio in ruoli che
non erano preparate ad affrontare. Con l'aggravante di aver avuto, a loro volta, una
formazione strettamente sessuofobica". E ricorda il caso di una monaca partenopea
dell'istituto Santa Dorotea che, ancora negli anni ottanta, fu oggetto di reprimenda da
parte degli ordini superiori "perché leggeva la Bibbia, comprese le pagine più
sconvenienti".
Netto come sempre, Colella, anche sul quesito più spinoso. Sono cambiate, oggi, le
suore? "Alcune sì, altre no. Il tentativo di riaprire certi discorsi e fare la
giusta autocritica é lungo e difficile, e le critiche rivolte al film di Mullan da parte
del mondo cattolico lo dimostrano. Al contrario, Magdalena può essere un'occasione per
riflettere sul passato, per dire a tutti che quei comportamenti aberranti erano frutto di
una società capace solo di dividere l'universo femminile in sante o puttane. Perché
questo non accada mai più".
LE ISTITUTRICI LAICHE
A febbraio 2000 il deputato di Forza Italia Pieralfonso
Fratta interrogava il ministro della Pubblica istruzione per sapere perché negli
Educandati femminili statali "l'organico di diritto é fermo a quello fissato nel
1957 e perché non si provvede a estendere a tale istituzione tutta la normativa vigente
in tutte le scuole d'Italia". Un mondo a parte, dunque, quello degli educandati e
della loro anima vera: le educatrici. Figure professionali in bilico tra le antiche
suggestioni dei romanzi d'appendice e le moderne funzioni di tutor, le istitutrici si
battono da tempo per ottenere riconoscimenti in grado di affrancarle da quel ruolo di
rigide vigilatrici sulla virtù delle fanciulle che la storia aveva loro assegnato.
Anche perché per i 1550 educatori italiani (un numero che comprende anche gli
analoghi operatori attivi nei convitti maschili, compreso il Vittorio Emanuele di piazza
Dante, a Napoli) si profilano tempi duri. Se infatti é rimasta ferma al '57 la situazione
lamentata dall'onorevole Fratta, ben più attivo si é dimostrato il ministro Letizia
Moratti nel far balenare pesanti tagli anche in questo settore: a parte la ventilata
chiusura dell'Educandato partenopeo di piazza Miracoli (inserito nella lista dei rami
secchi resa nota ad agosto scorso), si annunciano infatti esuberi tra gli educatori
italiani, calcolati finora in alcune centinaia di unità.
"Svolgiamo un'opera difficile e delicata - lamenta il coordinamento nazionale
degli educatori ed educatrici, capitanato dal partenopeo Vittorio Balestrieri - che
richiede notevoli sforzi per rendere quanto più possibile individualizzato l'intervento
educativo. Ed ora vorrebbero portare il rapporto educatore-alunno, che in origine era di
uno a dodici, ad uno a sedici, mandando a casa circa il 13 per cento del personale".
Alla base dei tagli, par di capire, non esistono motivazioni di ordine ideologico (come
quella, da più parti auspicata, di abolire questo tipo di strutture, nell'ottica di una
reale parità fra tutti i giovani), ma la stretta di freni imposta dalla Finanziaria
appena varata.
In un documento diffuso qualche tempo fa, inoltre, il coordinamento rende noto che
"é tuttora in fase di svolgimento un concorso per educatori", puntando l'indice
sulla piaga dell' "accaparramento delle notti da parte degli educatori ed
educatrici". La rigida regola degli Educandati - che, fra l'altro, impone al
direttore o alla direttrice di risiedere permanentemente nella struttura, con un alloggio
appositamente destinato - prevede infatti anche la sorveglianza notturna delle educande:
un compito che talune educatrici ritengono assai meno faticoso del lavoro diurno, ben più
esposto ad eventuali critiche da parte dei superiori.
Secondo un decreto legge del '94 gli Educandati femminili, "che hanno il fine di
curare lo sviluppo intellettuale e fisico delle giovani", sono retti da un consiglio
d'amministrazione nominato dal ministro della Pubblica istruzione, tranne
"l'Educandato femminile di Napoli". Denominato nell'Ottocento Real Casa
Carolina, destinata ad educare cento ragazze dai 7 ai 18 anni affidate alle cure di dame
scelte dal re, dopo l'unità d'Italia venne intitolato a Maria Clotilde di Savoia, prima
di passare allo Stato. Per effetto del decreto ministeriale del '94 l'istituto é l'unico
Educandato retto non da un consiglio d'amministrazione ma da "un direttore didattico
o un preside delle scuole annesse".
LE SUORE
Sono poco più di ventisettemila, suddivise in circa trenta ordini principali e
distribuite in ben 2.423 case o monasteri aperti nel Paese. Sono solo alcuni numeri per
illustrare il panorama degli istituti religiosi femminili in Italia che, nonostante la
sbandierata crisi delle vocazioni, rappresentano comunque una schiera ben consistente. Fra
gli ordini con maggiori presenze spiccano le Salesiane di Maria Ausiliatrice (con 5994
unità e 416 case), le Suore di San Vincenzo de' Paoli (oltre 3 mila religiose e 298 case)
e, soprattutto, le Suore del Cottolengo: sono attualmente 2.061, comprese le 139 dedite
esclusivamente alla vita contemplativa, e risiedono in 165 case e 5 monasteri. Presto
apriranno una sede anche in provincia di Napoli.
Non sfuggono, anche le monachine, ai cliché sull'universo femminile tuttora duri a
morire: angeli, come le tante - sicuramente la stragrande maggioranza - che seguono la
missione apostolica di Madre Teresa di Calcutta. Oppure demoni, come le feroci aguzzine
dei Magdalena's Sister Institutes, o come le esponenti di qualche congregazione, passate a
vestire i panni del manager dopo aver realizzato grossi business intorno ai collegi per
signorine bene. In mezzo, nel guado fra paradiso e inferno, esistono poi strutture
intermedie. Come, per fare il caso di Napoli, quello delle Suore del Buon Pastore di
Posillipo, tuttora destinato ad ospitare le ragazze che hanno avuto un figlio fuori dal
matrimonio, o quelle dai trascorsi 'vivaci'.
"I Magdalen's Institutes prima ancora che case religiose erano riformatori
giudiziari, case di correzione minorile, in diretto collegamento col ministero della
Giustizia. La gestione, affidata a congregazioni religiose (come avviene tuttora anche in
Italia, dove le suore sono ancora presenti nelle carceri femminili) era sottoposta al
controllo degli ispettori dello Stato, che esigeva dalle suore rigorosa sorveglianza e
disciplina". E' di Vittorio Messori, giornalista cattolico fra i più noti, la levata
di scudi contro il film di Mullan, che va ad aggiungersi al coro dell'Osservatore Romano e
di gran parte del clero ufficiale italiano.
"Altrettanto assurdo - incalza Messori - il tocco sadico delle suore che ogni
giorno banchettano fastosamente davanti alle ragazze che trangugiano la loro sbobba".
Quel ricordo ricorre in alcune delle lettere pubblicate su giornali del gruppo Ristretti
(fondato ed animato, tra gli altri, da Sergio Cusani) a proposito degli istituti religiosi
cui vengono affidate le minorenni che abbiano commesso reati. "I morsi della fame ci
tormentavano - ricorda O., temporaneamente ospite di una fondazione in Calabria - ma ancor
più ci faceva dannare il profumo di bistecca in arrivo dalla mensa delle
suore"."Le istituzioni, anche quelle religiose - taglia corto Colella - sono
fatte da uomini. E gli uomini possono sbagliare".
La detenzione femminile é stata gestita per secoli dalle suore che, fino alla riforma
del 1990, erano dirette superiore delle agenti penitenziarie. Da allora in poi le monache
prestano nelle carceri, così come nei residui manicomiali, un'opera meno gerarchizzata e
certamente di maggior impatto sotto il profilo umano e del sostegno complessivo alle
recluse.
Un mare oscuro di sofferenza: ecco i dati recentemente diffusi dal centro autogestito
di Radio Onda Rossa: "In Italia, dalla fine della seconda guerra mondiale al 2001, la
percentuale di donne detenute é rimasta immutata ed é pari a meno del 5 per cento del
totale, suddivisa nelle sezioni femminili degli istituti maschili ed in sei carceri solo
per donne che si trovano tutte, tranne un solo caso, nel Centro Sud dell'Italia".
Quanto alla tipologia dei reati, viene precisato che il 33 per cento sono recluse per
reati connessi alle sostanze stupefacenti, il 22 per cento ha commesso reati contro il
patrimonio e il 12 contro le persone. Trentatré donne in tutto sono dietro le sbarre con
accuse riferibili alla criminalità organizzata.
Ancor più inquietante il dato successivo: mentre, come abbiamo visto, da
cinquant'anni a questa parte la presenza carceraria femminile é rimasta numericamente
immutata, "nello stesso periodo la percentuale di donne rinchiuse nei manicomi - si
legge ancora nel documento - era ed é rimasta ben più alta di quella maschile".
LE "PECCATRICI"
Fra le tipologie di reato commesse dalle 2.369 donne detenute al 31 dicembre 2001
(6.129 quelle entrate in carcere nello stesso anno), compare ancora la voce
"prostituzione", "benché - fa notare Laura Astarita di Ristretti - non sia
più incriminabile lo status di prostituta. Si tratta di reati legati a tale condizione,
come oltraggio o resistenza a pubblico ufficiale, e ancora, violazione del foglio di via,
atti osceni, rissa e così via. Solitamente ne sono incriminate le immigrate africane o
dell'Europa dell'est e dei Paesi balcanici". "L'ex ministro della Solidarietà
sociale Livia Turco - dice Branka, croata, reclusa alla Giudecca di Venezia - dice che
l'80 per cento delle straniere che si prostituiscono sono costrette, mentre il Comitato
per i diritti civili delle prostitute sostiene che la maggior parte lo fa per
scelta".
Una scelta - se di questo si tratta - comunque obbligata: "Quando arrivi in
Italia - dice Lisi, nigeriana, anche lei alla Giudecca - sai già quanto devi pagare,
bisogna solo decidere come guadagnare il denaro. La scelta é tua, sei tu che decidi che
lavoro vuoi fare, come e in quanto tempo vuoi pagare". "Alla persona che ti ha
aiutata - aggiunge - interessa solo che tu paghi. E' naturale che la prima cosa che ti
capita tra le mani é la prostituzione, anche perché per trovare un altro lavoro ci vuole
del tempo". Paghi il debito, hai dei soldi, vivi bene.
Nasce così la figura della sex worker, sempre più diffusa nelle grandi città:
ragazze, in prevalenza straniere, che decidono di continuare a vendere il proprio corpo.
E, magari, di farlo a caro prezzo. "La riduzione della prostituta a sex worker -
puntualizza Pia Covre, fondatrice con Carla Corso, giusto vent'anni fa, del Comitato per i
diritti civili delle prostitute - rischia di essere una semplificazione eccessiva. Il
mercato della prostituzione oggi é un effetto della globalizzazione: mi riferisco in
particolare alle migrazioni forzate, ma anche a quelle volontarie, che accompagnano questo
snodo epocale".
"Se é vero - spiega ancora - che a spingere milioni di donne verso viaggi
disperati é il denaro, é altrettanto vero che la posta in gioco é quella di una vita
godibile". Cioé fatta di consumi, acquisti, auto, abiti, benessere. Sono comunque
poche, secondo Covre e Corso, le straniere che riescono a gestirsi in maniera quasi
autonoma: "Russe e ucraine - precisano - intascano attualmente un terzo del loro
guadagno, con un prezzo della prestazione che oscilla tra le 50 e le 100 mila lire,
tariffe degli anni '80". Si tratta il più delle volte di "un consumo affrettato
da parte del cliente, uomini che proiettano sul corpo femminile bisogni e paure: in primo
luogo - conclude Covre - quella di confrontarsi con la propria omosessualità".
Violentate in nome di Dio
La notizia scoppia come una bomba il 21 marzo dello scorso anno: in numerosi Paesi del
mondo, soprattutto quelli africani, ma anche in Irlanda, Stati Uniti ed Italia, centinaia
di suore sono state regolarmente violentate da preti "timorosi di contrarre l'Aids
attraverso rapporti sessuali con le prostitute" e costrette ad abortire. A pubblicare
lo sconcertante dossier é il periodico statunitense National Catholic Reporter, che
riprende il j'accuse di suor Marie 'O Donohue, medico e da anni missionaria nel terzo
Mondo.
Quattro rapporti redatti in funzione anti Aids tra il 1994 e il 1998 portano alla luce
una situazione che, benché non ignota, manifesta proporzioni molto più estese e gravi di
quanto non si supponesse. Membri del clero cattolico, questo in sintesi il contenuto,
hanno sfruttato e sfruttano la loro posizione finanziaria e spirituale per ottenere
prestazioni sessuali da parte delle suore, spesso portate dal loro condizionamento
culturale ad obbedire all'ecclesiastico.
Perché proprio le suore? "Perché - viene spiegato in ambienti cattolici
internazionali - in una situazione di diffusione a macchia d'olio dell'Aids, specialmente
in Africa, esse rappresentano un gruppo "safe", sicuro, non a rischio. E sono
molto più condizionabili, anche tramite false argomentazioni teologiche". Durissimi
i due documenti curati da suor Maria, impegnata per conto della Caritas Internationalis.
"La superiora di una comunità di religiose in un Paese - scriveva la missionaria nel
1994 - è stata contattata da preti che chiedevano di rendere loro disponibili le suore
per prestazioni sessuali. Al rifiuto della superiora, i preti hanno spiegato che
altrimenti si sarebbero visti obbligati a recarsi al villaggio per trovare donne,
esponendosi così al rischio dell'Aids".
"Grazie alle confidenze fattemi da molte sorelle nel corso delle mie visite -
continua la 'O Donohue - mi resi conto di questioni più profonde e anche più inquietanti
di quelle già emerse. Queste rivelavano modelli di comportamento che ero riluttante ad
accettare come fatti".
Molti casi riguardano giovani aspiranti alla vita religiosa che erano obbligate ad
avere rapporti sessuali con preti in cambio dei documenti per accedere alla propria
vocazione. Altre segnalazioni, poi, sulle tante religiose rimaste incinte in seguito a
questo tipo di rapporti e obbligate, per questo, a lasciare la congregazione, mentre il
prete responsabile è stato soltanto allontanato per un breve periodo.
Le cifre? Impressionanti: una congregazione diocesana in Africa ha allontanato 20
suore incinte; la superiora generale di un'altra, con 29 suore in gravidanza in seguito a
rapporti con preti, si è rivolta all'arcivescovo. Risultato: la superiora é stata
estromessa dalla congregazione.
"In alcuni Paesi - viene aggiunto nel dossier choc del 2001 - è notorio che i
preti abbiano relazioni multiple, anche con mogli di parrocchiani". Secondo quanto
riporta 'O Donohue, "in una parrocchia il parroco è stato attaccato con fucili dagli
uomini, estenuati dagli abusi di potere perpetrati dal prete nei confronti delle donne del
luogo".
"Alcuni preti chiedevano addirittura che le suore assumessero contraccettivi - si
legge ancora nel documento - convincendole del fatto che la pillola previene la
trasmissione del virus Hiv. Alcuni medici cattolici impiegati in ospedali cattolici hanno
rivelato di avere subìto pressioni da parte dei preti perché procurassero l'aborto alle
suore in quegli ospedali. Uno, addirittura, dopo aver spinto la suora rimasta incinta ad
abortire, e dopo la morte di questa durante l'operazione, le ha officiato la messa
funebre".
Suor Marie McDonald, superiore generale delle Missionarie di Nostra Signora d'Africa,
a novembre '98 aveva già messo nero su bianco l'esistenza di questi fenomeni: "Il
problema dell'abuso sessuale delle religiose africane in Africa e a Roma" era infatti
il titolo del rapporto presentato al "Consiglio dei 16", un gruppo di delegati
al dicastero vaticano competente in materia. Non é stata mai resa nota alcuna reazione da
parte delle sfere gerarchiche. Ed anche in occasione dell'uscita, a marzo 2001, del
rapporto di suor 'O Donhoue sulla rivista cattolica americana, il portavoce della Santa
Sede Navarro Valls si é limitato a riconoscere la fondatezza delle notizie diffuse da
quell'organo di stampa, aggiungendo che "alcune situazioni negative non devono far
dimenticare la fedeltà, spesso eroica, della stragrande maggioranza dei religiosi,
religiose e sacerdoti".
Da allora, però, su tutta la vicenda é calata una fitta coltre di silenzio.
Le ragazze di Benin City
Akara-Ogun e la ragazza di Benin City. S'intitola così il primo libro-verità di un
cliente pentito, Claudio Magnabosco, ed il suo progetto di sostegno alle giovani
prostitute schiavizzate, che ha già fatto il giro dei media in poco meno di sei mesi. Il
'la' é stato dato dalla giornalista di Panorama Laura Maragnani che, cogliendo il forte
elemento di novità contenuto nella proposta, ha messo su un articolo destinato a
suscitare riprese (dal Corriere della Sera al Costanzo Show), commenti, iniziative
concrete.
51 anni, una famiglia alle spalle disgregata ma sogni intatti nel cassetto segreto
dell'anima, Magnabosco è giornalista ad Aosta, dove ha svolto mansioni di capo ufficio
stampa alla Regione. Edito da Quale Cultura -Jaca Book, il romanzo ripercorre le tappe di
un amore-riscatto nato a margine di uno fra i tanti incontri anonimi che si consumano di
notte lungo marciapiedi e vialoni di grandi e piccole città.
A inizio settembre Magnabosco ha cominciato ad inviare un notiziario periodico sullo
stato di avanzamento del progetto a tutte le testate che si sono interessate al suo caso.
"In particolare - informa - dalla presentazione che avvenne alla Fiera del libro di
Torino alla presenza di don Oreste Benzi e di Toni Capuozzo, alla mia recentissima
partecipazione ad un incontro a Verona promosso dai comboniani, libro e progetto stanno
andando avanti positivamente".
Tra le iniziative, quella di promuovere una campagna di 'adozione a distanza per
sostenere i percorsi di recupero delle schiave, ed un forte attivismo sociale rivolto a
sensibilizzare clienti ed amici delle ragazze, sfociato nella creazione di gruppi di
"auto-mutuo-aiuto". Altro obiettivo prioritario, la lotta contro l'odiata legge
Fini Bossi e la "critica ai media che, parlando di case chiuse ed eros center, non
ascoltano la voce delle ragazze schiavizzate".
Intanto, a lanciare un ponte ideale di solidarietà proprio con Benin City é
destinato quest'anno il Progetto Speranza, giunto alla terza annualità e fortemente
sostenuto dal presidente della Provincia di Caserta Riccardo Ventre in collaborazione con
la locale Caritas. Si tratta di un progetto pilota, quanto mai necessario in un territorio
fra i più devastati dalla tratta di esseri umani e guardato a livello internazionale come
una delle più interessanti iniziative messe in campo finora per contrastare il fenomeno.
Particolarmente attiva, quest'anno, la partecipazione dell'arcisiocesi di Capua,
soprattutto sul fronte della prostituzione in territorio domizio dove, con l'aiuto di tre
suore nigeriane originarie di Benin City - la città da dove proviene il maggior numero
delle ragazze - verranno messi in campo interventi per aiutare le giovani schiave a
ritrovare un'esistenza normale.
Il progetto prevede momenti di formazione, finalizzati al successivo inserimento nel
mondo del lavoro. L'Arcidiocesi di Capua provvederà alla prima accoglienza delle giovani,
che quest'anno sono dodici, inserite in un programma di protezione speciale. Accanto a
loro ci saranno le Suore Nigeriane del Sacred Heart di Gesù. (l. z.)
SPINE VENUTE DAL FREDDO
Nel bar Olympus, a Trentola Ducenta, c'è una brocca d'acqua sul bancone con una
vecchia arancia che galleggia: "Chi riesce a mettere una moneta da 50 cent in
equilibrio sull'arancia - dice un cartoncino poggiato al vetro - vince un bacio dalla
barista Caterina". Caterina non è il vero nome della giovane banconista ucraina ma
la sua versione italianizzata, così non si perde tempo con sillabe impronunciabili. Prima
del suo nome sull'avviso ve ne sono altri due cancellati, segno del rapido avvicendarsi di
ragazze diverse (licenziate? partite?) allo stesso gioco.
Nel medesimo locale in cui alla barista straniera viene chiesta questa pubblica
esibizione di disponibilità, donne e uomini si lamentano dei costumi delle ragazze
dell'est, accusate di approfittare della loro avvenenza per far colpo su padri e mariti
"irreprensibili", portando scompiglio nelle famiglie dell'agro aversano.
"Mia madre ha licenziato una cameriera ucraina qualche giorno fa - racconta un
ragazzino che gioca ai videogame, figlio dei proprietari del vicino ristorante - perché
stava al telefono invece di servire ai tavoli, e lei ha fermato un'automobile in strada e
prima di salire ha gridato che mio padre insisteva sempre per uscire con lei". Alla
voce del ragazzo si unisce il coro dei paesani e persino delle istituzioni: dopo le
ripetute lamentele di mogli e figli allarmati dalla debolezza degli uomini, il sindaco
Michele Griffo, dell'Udc, ha ordinato un monitoraggio sulla posizione giuridica degli
immigrati presenti sul territorio, pervenendo in particolare all'emissione di circa 35
fogli di via per altrettante ragazze dell'est residenti a Trentola o nei comuni vicini.
"Mi sono mosso nel rispetto della legalità e nel quadro della legge Bossi Fini -
ci tiene a precisare il sindaco - soprattutto in risposta ad una protesta che mi giungeva
da donne e ragazzi del paese, preoccupati per la solidità delle loro famiglie. Non sempre
quelle con le giovani badanti o cameriere dell'est sono semplici scappatelle, un nostro
concittadino ha appena acquistato una casa in Ucraina!".
Non ci sta a passare per razzista, il cattolico geometra Griffo, ma esprime senza
mezzi termini il suo punto di vista sulla faccenda che ha dovuto fronteggiare:
"quelli che si instaurano qui tra padri di famiglia e giovani ucraine - commenta -
non sono rapporti sentimentali ma economici, e in questo caso è l'uomo ad essere
sfruttato, non la donna immigrata". Gli dà man forte il comandante della polizia
municipale, Armando Maiolica: "non si spiega altrimenti il fatto che le giovani
ucraine si accompagnino quasi sempre ad ultracinquantenni dalla ormai solida posizione
economica".
Dure le reazioni ad un provvedimento giudicato unilaterale: "Pura demagogia -
afferma Pietro Paolo Ciardiello, dirigente locale dei Ds - nel caso delle ucraine il
problema va semmai invertito: molti datori di lavoro abusano di ragazze che non possono
rifiutarsi. E' il loro comportamento che va censurato". Ma le donne del paese si
schierano per lo più dalla parte del sindaco. E raccontano - spesso con dovizia di
particolari - di come una tranquilla badante possa trasformarsi, ai loro occhi, in una
pericolosa virago. "Non subito o all'improvviso, ma lentamente", racconta la
signora A., commerciante. "Io ho preso una ragazza ucraina per le pulizie, perché
sono sempre fuori per lavoro. Dopo quattro mesi ho notato alcune novità nel comportamento
di mio marito: usciva la sera per mangiare la pizza con gli amici (cosa che non aveva mai
fatto), poi cominciò ad uscire due domeniche al mese: si alzava da tavola alle 14 in
punto, non aveva creanza neanche per gli ospiti. Ho trovato nella sua auto sacchetti della
spesa vuoti e una volta addirittura un televisore nuovo, che non ha mai portato a casa:
tutte cose regalate all'ucraina. Ho cominciato a controllare il contachilometri e il
cellulare di mio marito, finché non ho avuto più dubbi. Sono andata con mia figlia a
casa della ragazza e l'ho affrontata, ma quando mio marito l'ha saputo mi ha messo le mani
addosso".
D'altronde quella di A. è solo una delle tante voci che lamentano, nell'Agro, la
presenza di ragazze dell'est che spenderebbero 150 euro in profumeria o si accompagnano ad
attempati italiani nella passeggiata della domenica: ad Aversa è stata presentata una
petizione alle autorità, a Casal di Principe nell'aprile scorso è esploso il malcontento
delle donne e ora, a Trentola, l'interdizione.
Alle accuse generiche rispondono la vita e le difficoltà incontrate da Maria, ucraina
impiegata in una pizzeria ad Aversa: "Ringrazio Dio che la proprietaria del locale
dove lavoro è una donna. Quando arrivi da sola in un posto puoi facilmente trovare
qualcuno che ti ricatta: o fai questo con me o perdi il posto. Allora pensi: Dio mi
perdoni, ma lo devo fare. Io sono qui da quattro anni, ormai sto bene, ma è difficile
stare lontani da casa: quando mia madre è morta io non c'ero. Mio marito è a sei anni
dalla pensione e non può venire qui, perderebbe tutto. I miei figli e mio genero sono
stati qui per un anno e mezzo: loro sono medici, il marito di mia figlia commercialista,
ma hanno lavorato come pasticciere, donna delle pulizie e cameriere. Hanno guadagnato
qualcosa, poi sono tornati in patria per evitare di essere radiati dagli ordini
professionali".
Quella di Maria è solo una delle più fortunate tra le vicende delle circa 1100
ragazze dell'est presenti in provincia di Caserta, un'avanguardia femminile di immigrate
che trovano più facilmente lavoro (badanti, cameriere o donne delle pulizie, ma nei paesi
dell'agro sempre più spesso massaggiatrici o manicure) ma incontrano anche le maggiori
insidie.
Paolo Graziano
LE VIRAGO DELL'EST
"Credo e la cultura italiana sia lontana dal concetto di responsabilità
individuale, ragione per cui la colpa non è mai dei mariti ma delle ragazze
dell'est". Affonda il dito nella piaga Antonio Pascale, autore de "La città
distratta" per Einaudi , impietoso e ironico reportage narrativo sulla provincia
casertana che scava, tra l'altro, nei contorti rapporti dei meridionali con gli immigrati.
Lui, lei, l'altra: è una storia universale, eppure condita di elementi e dinamiche
grottesche peculiari del sud e della nostra provincia. Come legge questa storia in chiave
"casertana"?
Ci piace enfatizzare il concetto di seduzione perché crea due figure di facile
identificazione, appunto: il sedotto (fesso ma incolpevole) e la seduttrice (calcolatrice
e dunque portatrice di scompiglio). A Caserta, per esempio, queste voci sulle polacche
girano da anni: le polacche si sono impadronite dei beni di famiglia, hanno fatto uscire
di testa i vecchi, vanno a fare le pulizie in minigonna e calze a rete, ecc. Insomma donne
disposte a tutto. Se poi andate a piazza Vanvitelli la domenica vedrete più facilmente
casertani disposti a tutto per una polacca.
Donne sfruttate, costrette dal bisogno a lasciare marito e figli e a venire in Italia,
abbagliate dal miraggio del benessere; uomini deboli, ingannati da donne giovani,
spogliati di beni e averi. Dov'è la violenza, chi sono le vittime?
Sì, donne costrette a lasciare mariti e figli e venire da noi. Soprattutto perché
quei mariti e figli, da lì giù, spesso reclamano i nostri stessi beni di consumo. Prima
con i comunisti avevano soldi e pochi beni di consumo, adesso hanno tanti beni di consumo
e pochi soldi. Ho conosciuto un po' di badanti che mandavano i soldi a casa affinché i
figli comprassero le Nike. Forse la violenza è questa. Siamo sempre lì alla definizione
di Pasolini: il progresso è una cosa auspicabile, lo sviluppo no. Il progresso spesso
prevede un pensiero collettivo, un'idea che lo fonda e lo struttura, prevede tempi e modi,
lo sviluppo arriva e spesso nemmeno avvisa. S'impone. Così perdiamo sempre qualcosa o ci
impauriamo per qualcosa che non ci somiglia.
Cosa stanno proteggendo le donne e il sindaco di Trentola: gli affetti, l'onorabilità
, il patrimonio?
No, più che proteggere qualcosa stiamo nascondendoci la verità. Utilizziamo e spesso
sfruttiamo queste persone non solo perché ci servono, ma anche perché non ci costano, e
non costandoci molto, non rinunciamo al nostro tenore di vita. E' questo, ciò che
proteggiamo davvero. Se solo riconoscessimo questa verità, potremmo almeno sperare in un
atteggiamento più onesto, non dico migliore, ma più leale. Invece creiamo uno spaventoso
surrogato: la mitologia dell'ucraina virago. Un modo per pulirci la coscienza e dire: ma
quale sfruttamento, sono loro che sfruttano la nostra buona fede. Non distante del resto
dall'altro luogo comune fascista che dice: noi abbiamo costruito le strade agli africani,
abbiamo portato loro la civiltà, loro invece cosa portano: violenza, terrorismo,
delinquenza?
PAOLO GRAZIANO