ART 21 Giornale sinusoidalee NUMERO MONOTEMATICO MAGGIO 1898 Gruppo Libertario l'ERBA Casatenovo 1 Edizione - Maggio 1998 Fotocopiato in proprio I MOTI DEL PANE MAGGIO 1898 La seconda metà dell'ottocento fu un periodo di intensa lotta sociale, che vide il mondo operaio e contadino italiano impegnato nella costruzione di una propria organizzazione politica, ma che si concluse tragicamente con la reazione delle istituzioni culminata nella cruenta repressione dei moti del 1898. Se nell'immediato dopo unità il brigantaggio era stato espressione di malcontento dei contadini meridionali, tra il 1868 e il 1869 si assiste ai così detti moti del macinato, sostenuti da una spontanea e determinata sollevazione popolare tesa a protestare contro il rincaro del prezzo del pane. Questi avvenimenti, accanto ad altri meno noti ma non di minore importanza, prepararono il terreno alla diffusione della prima Internazionale. L'internazionalismo, nella sua versione bakuniniana ed antiautoritaria, dilagò infatti nell'Italia unita negli anni immediatamente successivi agli eventi della Comune parigina della primavera 1871. sono gli anarchici, in questa delicatissima fase storica, a fare breccia nel malcontento popolare e a dar voce alla protesta contro lo stato sfruttatore e affamatore. Da qui l'attuazione di numerosi tentativi insurrezionali, come quello, soffocato sul nascere della delazione di alcuni traditori, che si registrò nell'agosto del 1874 e che ebbe per teatro Bologna e le Romagne. Nel 1776, quando la Sinistra prende il posto della Destra nella guida del paese, gli anarchici internazionalisti decidono di intensificare la lotta, accentuando la così detta "propaganda del fatto". Ne sono significativi esempi le imprese della Banda del matese (1877) e gli attentati del biennio '78-'79, il più celebre dei quali ebbe per protagonista Giovanni Passanante, autore di un coraggioso quanto sfortunato tentativo di eliminare il re Umberto I. Gli anni ottanta sono anni caldi sul fronte della mobilitazione dei lavoratori: scioperi agricoli si registrano, soprattutto nel cremonese, durante il 1882 mentre nel 1884, nella provincia di Rovigo, viene proclamato lo sciopero generale al grido di "la boje!" (la pentola "bolle", per indicare il grado di esasperazione cui erano giunti i lavoratori). Il decennio successivo è caratterizzato dalla protesta dei contadini meridionali, confluita nei "fasci siciliani" a cavallo tra il 1893 e il 1894, ma anche dalla costituzione del partito socialista italiano nel gennaio del 1892 e dallo scandalo della Banca romana (1889), che contribuì, con la sconfitta subita ad Adua nel 1896 dal corpo di spedizione italiano, ad esasperare la sfiducia nei confronti delle istituzioni statali e delle forze politiche che le rappresentano. Solo se si tiene conto di questo panorama, per altro solo sommariamente tratteggiato, si può comprendere il significato politico della repressione dei moti del 1898, che altro non fu se non la risposta del governo conservatore alle legittime rivendicazioni dei lavoratori italiani. Il 1898 rappresenta uno spartiacque, un nodo nel quale si intrecciano molti dei problemi fondamentali dell'Italia contemporanea, non ultimo quello del terrorismo di Stato, divenuto tristemente noto in tempi a noi più prossimi con il nome "strategia della tensione". Preceduto da un'annata di pessimo raccolto e di rincaro della vita, il '98 dovette assistere all'esplosione della collera popolare accumulatasi nella seconda metà del secolo. In aprile le masse affamate scesero in piazza a Faenza, Bari, Palermo, Napoli, Pesaro e Ferrara. Nei primi giorni del mese successivo il fermento si estese a Molfetta, Benevento, Rimini e Ravenna, interessando entro breve tempo gran parte dell'Italia. La protesta, ormai generalizzata, si incanalò verso il suo tragico epilogo nella città di Milano a partire dal 6 maggio. Quel giorno, agenti della polizia, infiltratisi durante la pausa pranzo tra gli operai della Pirelli, in via Glilei, procedettero all'arresto di alcuni propagandisti che distribuivano volantini nei quali si accusava il governo di essere responsabile della carestia che attanagliava il paese. Grazie all'intervento di Filippo Turati, gli arrestati furono rilasciati, ad eccezione di un operaio che venne trattenuto nelle celle della questura. Ma i lavoratori della Pirelli non volevano darsi pace, finché anche quel loro compagno non fosse stato rilasciato. Essi pertanto mantennero la mobilitazione, ottenendo la solidarietà delle maestranze delle fabbriche limitrofe. La giornata di lotta così continuò, ma sul calar della sera, rispondendo alla sassaiola di un gruppo di scioperanti, un reparto della polizia fece fuoco, richiamando l'attenzione di una compagnia di soldati, che accorsa sul luogo, scaricò a sua volta le armi sugli inermi lavoratori. Tre morti e numerosi feriti costituirono il pesante bilancio di quella giornata. L'indomani, 7 maggio, fu proclamato uno sciopero generale di protesta, al quale i milanesi aderirono in massa, scendendo numerosi nelle vie e nelle principali piazze della città. Contro la popolazione fu lanciata la cavalleria, il cui effetto venne però vanificato dalle barriere rapidamente erette e dalle tegole lanciate dai tetti delle abitazioni. Nel pomeriggio di quella stessa giornata, il governo, che volle a tutti i costi vedere dietro i disordini una inesistente macchinazione rivoluzionaria, decretò lo stato d'assedio a Milano, affidando i pieni poteri al generale Bava Beccaris. L'8 maggio i cannoni entrarono in azione contro le barricate e la folla, nella quale non mancavano donne, bambini e vecchi, distribuendo piombo e morte laddove si chiedeva pane e dignità. Alcune centinaia di civili rimasero uccisi, un numero che non si riuscì mai a quantificare con esattezza, ma che certamente risultò superiore a quello dei milanesi "caduti per la patria" durante le famose 5 giornate del 1848. Il governo italiano si mostrò in questa occasione più efficiente di quello austriaco. Accanto ai morti si contò poi un migliaio di feriti. A partire dal giorno successivo, 9 maggio, quando ormai l'"ordine" era stato ristabilito a Milano e nel resto del paese, il generale Bava Beccaris, col pieno sostegno del governo, emanò una serie di decreti liberticidi, ormai del tutto ingiustificati, che portò fra l'altro alla soppressione della stampa di opposizione. Tra le pubblicazioni soppresse, la maggior parte delle quali era di ispirazione socialista, ve ne furono anche tre anarchiche. Lo stato d'assedio venne mantenuto anche quando i milanesi, sconcertati, erano stati ormai ridotti all'innocuità. La degna conclusione di questa vergognosa pagina della nostra storia, fu il conferimento al generale Bava Beccaris della croce di Grande Ufficiale dell'ordine militare di Savoia, perché, come si premurò di telegrafare da Roma il capo del governo, Di Rudini: "Ella ha reso un grande servigio al Re e alla patria". Il governo dei "galantuomini" Il 1° marzo 1896 il generale Baratieri viene battuto ad Adua dal negus Menelik. La sconfitta riaccende in Italia l'avversione popolare all'avventura africana. A Napoli, Ancona, Milano, Genova scoppiano manifestazioni. Si grida "Via dall'Africa", "Abbasso Crispi". A Milano la folla viene affrontata dalla truppa, un soldato uccide con un colpo di baionetta un operaio. Il 5 marzo i dimostranti invadono la stazione ferroviaria per impedire che reparti dell'esercito partano per l'Africa. Anche a Parma si tenta di non far partire la truppa. Crispi viene travolto dalle manifestazioni, e costretto a dimettersi. Lo sostituisce un altro siciliano, il marchese Di Rudinì, il cui governo fu chiamato "dei galantuomini". Di Rudinì concede l'amnistia ai socialisti ed agli altri detenuti politici, ma in sostanza la politica governativa antipopolare non cambia. Il nuovo governo, anzi, ravviva la lotta contro il popolo, prende alla gola i "sovversivi". Vengono proibite non solo le loro conferenze pubbliche e private, ma anche la notizia della proibizione. I circoli socialisti, sciolti o minacciati di chiusura; lo stato d'assedio ò proclamato ad Empoli; le forze dell'ordine soffocano dovunque qualsiasi manifestazione popolare, qualunque tentativo di sciopero. Numerosi organizzatori socialisti e repubblicani sono arrestati e condannati. Di morte violenta si tenta di parlare, anzi di scrivere, in una scuola, ma il perbenismo italiano esplode per l'indignazione. Il fatto avviene a Roma, dove un insegnante dà alle ragazze di un istituto magistrale un tema sul suicidio: "Sul punto di uccidersi". I giornalisti menano gran chiasso e ne viene fuori un putiferio. Alla camera se ne discute il 6 maggio 1897, per iniziativa del deputato Martini, che vuol sapere dal ministro della pubblica istruzione "quali provvedimenti intenda prendere". Gli risponde il sottosegretario Galimberti che il tema fu dato in una scuola "non dipendente dal Governo", ma gli impensieriti e trepidanti stiano tranquilli: "Si è chiamato ad audiendum verbum per mezzo del provveditore il professore che aveva assegnato quel tema". Dice il sottoministro che questi è uno dei più vecchi insegnanti e ornamento non oscuro della letteratura italiana, e poiché appartiene alla scuola neo-guelfa e cristiana non si può supporre che quel tema nella sua mente volesse dire apoteosi del suicidio [...] Infatti nel dare questo esercizio alle alunne [..non] mancò di condannare il suicidio paragonandolo all'omicidio [...] Comprenderà l'onorevole Martini che io non posso condividere queste giustificazioni del professore, quantunque i lavori che ho letti abbiano svolto il tema nel senso più morale e più logicamente cristiano che si possa desiderare [...] assicuro l'onorevole Martini che, come nel passato così nell'avvenire, insisteremo perché il buon senso soltanto regoli i maestri nella scelta dei temi [...] Il "buon senso", dunque, è la legge ala quale devono sottoporsi i maestri nella scelta dei temi. Il suicidio e la morte possono essere compresi nel "buon senso"? Evidentemente np, quando codesto "buon senso deve essere applicato alla scuola. Evidentemente sì, quando si deve applicarlo il governo per mantenere l'ordine. Perciò tutti, anche i ragazzi e le studentesse, possono assistere agli eccidi della povera gente, alla pubblica esecuzione sommaria di un gruppo di contadini e di operai in sciopero; anzi, perfino i bambini possono svolgere il ruolo di protagonisti del "buon senso" governativo cadendo sotto il piombo delle forze dell'ordine. Ma una studentessa, invece, non può, non deve sfiorare la violenza neppure come materia di studio a scuola, nemmeno se si tratta non della violenza del governo e della classe dominante, ma di quella particolare forma di violenza contro se stessi che si chiama suicidio. Che ne pensa, dunque, il deputato Martini? È soddisfatto della nobile e rassicurante risposta del sottoministro? Certo che no. Diamine, come potrebbe esserlo, se nella scuola si danno anche altri temi "non molto dissimili"? "Noti la Camera - dice sommessamente e con modestia, quasi chiedendo scusa dell'ardire - che non mi sarei indotto a far questa interrogazione se temi non molto dissimili da questo, anzi moralmente e pedagogicamente peggiori, dati da svolgere in altre scuole pure femminili, non si fosse di recente parlato [...] S'è detto recentemente di questo: "Adulterio e lussuria"". Gli atti parlamentari registrano a questo punto :"Viva ilarità". Già, la camera dei deputati del nostro paese ride. Si diverte ascoltando la voce imbarazzata del deputato Martini che parla di "adulterio e lussuria" come tema dato a scuola. Evviva il sesso e l'insegnante che assegnò alle sue alunne un simile tema, se ciò fa ridere gli onorevoli deputati. Ma dopo l'ilarità i volti dei deputati devono essere diventati tesi per "l'impressione", e lo spettacolo di quelle facce subitamente passate dalle risate alle preoccupazioni deve aver a sua volta impressionato il sottoministro, che s'affrettò a tranquillizzare gli "onorevoli colleghi" e se stesso: Non posso lasciare la Camera sotto l'impressione che sia stato possibile nella scuola italiana un tema [...] "lussuria e adulterio". Ha circolato questa voce, ma io posso smentirla categoricamente. Creda l'onorevole Martini, che, se un tema simile fosse stato dato nelle nostre scuole, non ci saremmo limitati a mandare circolari ai provveditori od a richiamare all'ordine ["ad audiendum verbum"] il professore, ma avremmo fatto quello che il nostro dovere ci ispirava; avremmo, cioè, rimosso dall'insegnamento un tale maestro. Che se poi accadesse che in qualche istituto privato si trattassero consimili temi, il Ministero è abbastanza armato dalla legge per chiudere una scuola che io non tarderei a battezzare immorale. Tra la minaccia di un battesimo d'immoralità alla scuola che ardisse presentare agli studenti qualche problema concreto e non retorico, tra violenze, arbitri e illegalità s'arriva al bagno di sangue del 1898. La prima vittima dell'ordine galantuomo cade il 2 gennaio in Sicilia: a Siculana, la forza spara sulla folla che tumultua per il pane e il lavoro, e uccide un contadino. Manifestazioni - sempre represse dalla forza governativa - per il pane, il lavoro e contro le imposte (i contadini sono costretti a pagare un'imposta anche per gli animali da tiro - il cavallo, il mulo, l'asino) avvengono nei giorni seguenti a Santeramo, nelle province di Modena e Bologna, a Canicattì, a Montescaglioso, dove intervengono reparti di fanteria, e la polizia arresta decine di persone. Il 16 gennaio la forza opera a Forlì; nei giorni seguenti ad Ancona, dove Errico Malatesta e il movimento anarchico animano la lotta popolare. Il 15 gennaio il prezzo del pane viene aumentato di 5 centesimi al chilo, da 45 a 50. La reazione popolare non si fa attendere. La mattina del 17 una grande folla - donne e ragazzi per la maggior parte - protesta ad Ancona dinanzi al comune chiedendo che venga abolito il dazio sulla farina e ridotto il prezzo del pane. Intervengono i carabinieri, e la manifestazione dilaga con la partecipazione di migliaia di lavoratori. Nuovi nuclei di carabinieri e di polizia, e cinque compagnie di fanteria, accorrono in città, dove la folla invoca la "rivoluzione sociale" e l'anarchia. Scontri avvengono soprattutto nel centro cittadino, con molti feriti. Il governo fa intervenire anche due squadroni di cavalleria. Errico Malatesta e un dirigente socialista vengono arrestati. La folla tenta di bloccare le cariche della cavalleria ostruendo le strade con fili di ferro. Il 20 gennaio la città viene affidata al generale Baldissera (quello stesso che andando in Africa s'era portato dietro quella famosa canzoncina : Baldissera, Baldissera, - non ti fidar di quella gente nera). costui, assumendo i pieni poteri militari, ordina arresti di massa. Nello stesso tempo il governo decreta la riduzione di due lire al quintale del dazio sul grano. Il 18 e 19 gennaio, manifestazioni contro l'aumento del prezzo del pane avvengono anche nelle vicinanze di Ancona, ed a Senigallia, dove interviene un battaglione di fanteria inviato da Pesaro. In quello stesso giorno, tumulti a Macerata, Matelica, Iesi e altrove. Il giorno dopo manifestano le popolazioni di Osimo e di Chiaravalle. La forza interviene dovunque, e arresta numerose persone. I tribunali penali avranno poi il loro lavoro: solo ad Ancona verranno processati 243 imputati. Manifestazioni avvengono anche a Trapani, Gallipoli, Firenze, ecc. ... Il 24 gennaio a Votri gli operai licenziati da un cotonificio protestano: la polizia spara: due morti, quattro feriti, una quarantina di arrestati. Nei giorni e nelle settimane seguenti, decine di scioperi e tumulti in Sicilia, in Campania, nelle Marche. Il 3 febbraio Perugia è posta in stato d'assedio. Dieci giorni dopo il governo proibisce a Lugo di Romagna la commemorazione della Repubblica Romana, e la forza scioglie la manifestazione. Il 16 febbraio la forza interviene contro una manifestazione a Palermo. Il 18 la truppa spara a Troiana su disoccupati, donne e ragazzi: cinque morti e ventotto feriti. Il paese è posto in stato d'assedio e invaso da due compagnie di fanteria. Il 22 febbraio, cinque morti a Modica, dove sparano i soldati e i carabinieri. In marzo, a Bassano intervengono contro la popolazione gli alpini, mentre a Molinella cinquanta mondine e il sindacalista Giuseppe Massarenti vengono arrestati, e sciolte le cooperative. In aprile scoppia la guerra tra Spagna e gli Stati Uniti, ed il prezzo del grano e della farina aumenta. Il governo, però, avrebbe potuto evitare il rincaro del pane sospendendo temporaneamente, come aveva chiesto l'opposizione, il dazio sulla farina, ma Di Rudinì non voleva danneggiare "ceti numerosi e potenti", e impose nuovi sacrifici alla popolazione. Per i più poveri il sacrificio significava la fame. La protesta scoppiò in tutto il paese, e la forza intervenne dappertutto. Il 25 aprile la cavalleria e carabinieri occupano Bari, messa in stato d'assedio, mentre dal mare l'incrociatore Etruria punta i cannoni sulla città. Manifestazioni e interventi della forza in molti paesi della provincia. Il 28 aprile il sindaco di Foggia , sotto la pressione popolare, riduce il prezzo del pane, mentre la truppa reprime la manifestazione. Il 30 aprile la forza spegne molte manifestazioni in Campania, dove la gente chiede "pane e lavoro". Il 1 maggio, 5 morti a Molfetta, e quattro giorni dopo altri due morti. Da Bari accorre la fanteria. Proteste anche a Minervino e altrove. Il governo affida la regione al generale Pelloux. Il 1 e 2 maggio la truppa spara a Bagnacavallo: sei morti. Il 2 maggio, un morto a Piacenza e un morto a Figline Valdarno. Il 4 maggio, piombo a Sesto Fiorentino: 4 morti. Il 6 maggio, stato d'assedio a Livorno; il giorno seguente due morti. Il 14 maggio, cavalleria e carabinieri sparano a Soresina (un morto), a Napoli (due morti), a Piacenza (un morto), a Livorno (un morto), a Pavia (un morto). Il 9 maggio la truppa era già intervenuta a Napoli, arrestando moltissime persone, e, nelle lotte sul 13, anche molti giovani iscritti al partito socialista. Contadini, operai, donne cadono in molti paesi: in pochi giorni, cinquantuno morti. I feriti sono centinaia, e gli arrestati migliaia: in un solo giorno erano state incarcerate mille persone a Napoli, cinquecento a Bari, trecento a Livorno. Intanto il 6 maggio i carabinieri avevano sparato anche a Firenze e ucciso due persone, mentre tre giorni dopo la città era stata messa in stato d'assedio. Per le forze dell'ordine ed i benpensanti i dimostranti non sono altro che "sfaccendati", "canaglia", "becerume", i quali spesso passano dalle "urla bestiali" agli "atti di vandalismo", finchè, "fiutato odor di sangue, avanzano selvaggiamente alla caccia delle vittime", cioè della polizia. La quale, per difendersi spara. Questo è il meccanismo dei massacri, secondo i galantuomini, così s'ammazzava la gente nelle strade e nelle piazze d'Italia. Ma le luttuose giornate alle quali abbiamo accennato non sono che un granello di sabbia in confronto alla tempesta che negli stessi giorni si abbatte su Milano. Il 5 maggio 1898, a Pavia, la polizia affronta una manifestazione popolare. Un giovane, Muzio Musso, figlio del sindaco di Milano, tenta generosamente di evitare un eccidio, e viene ucciso dagli agenti. A Milano l'opinione pubblica si commuove e si indigna. L'organizzazione sindacale fa stampare un manifesto di protesta e ne affida la distribuzione ad alcuni iscritti. La polizia arresta qua e là qualche operaio, sequestra i manifestini. il 6 maggio interviene la truppa che assale la folla. Viene imposto lo stato d'assedio, e il generale Fiorenzo Bava Beccaris assume il comando delle operazioni. Cominciò allora la caccia all'uomo. LA polizia inseguiva fino in casa la gente in fuga, sparando revolverate; i soldati tiravano al bersaglio, cioè a uomini e donne, ragazzi, chiunque ardisse non uscire in strada ma solo affacciarsi a una porta, a una finestra, a un balcone. Spararono perfino contro finestre chiuse, e ammazzarono chi sciaguratamente si trovava dietro le imposte. I carabinieri diedero la caccia sui tetti ai ragazzi, e chi non si fermava veniva "freddato a colpi di pistola". Tra le vittime, una bimba di nove anni uscita con lo zio per imbucare una lettera per il padre lontano: una scheggia del primo colpo di cannone sparato dalla truppa le squarciò lo stomaco. Il 9 maggio la truppa assalì perfino un convento in corso Monforte. In due minuti, con qualche colpo di cannone, fu fatta una breccia nel muro, ed i soldati, baionetta in canna, irruppero nel cortile gridando "Vittoria! Vittoria". Ma nel cortile non c'erano che miserabili mendicanti terrorizzati e in fuga, e tre morti. I mendicanti erano andati, come al solito, dai frati per la minestra, ed erano stati sorpresi dalle cannonate mentre mangiavano. Uno venne ammazzato "mentre metteva in bocca l'ultima cucchiaiata di pasta. Era addossato al muro vicino al pisciatoio e cadde in terra morto con la tazzina in mano. Il secondo credevano fosse diventato matto. Prese la rincorsa, fece quattro o cinque passi verso il centro del cortile e precipitò supino come un sacco di stracci [...]. Il terzo irrigidiva sotto il portico della chiesa". Atterriti i mendicanti si rifugiarono nell'ingresso del convento, l'uno addosso all'altro. Racconta un superstite: I proiettili cadevano da ogni parte e noi non avevamo per coprirci che le nostre mani e per proteggerci che le nostre preghiere. Le donne coi bimbi piangevano e nascondevano la testa delle loro creature con le braccia. Gli uomini cercavano di ficcare la faccia tra le spalle degli altri. Alla fine dell'eccidio, che durò tre giorni, si contarono le vittime: 118 morti e 450 feriti, secondo il governo; secondo l'opposizione, almeno 400 morti e oltre duemila feriti. Tra le forze dell'ordine, due morti e alcuni feriti. Gli Austriaci, nelle Cinque giornate del 1848, non fecero così tante vittime: i morti d'allora furono 350. Cessata la strage, i giornali governativi, la polizia e la maggioranza parlamentare si servirono, come sempre, della menzogna per giustificare "l'insensato e brutale macello". Affermarono che a Milano si voleva costituire uno stato autonomo. Sostennero, cioè, che la maniera forte era stata indispensabile per salvare l'unità del paese. Ma la menzogna era grossolana. Se gli insorti "spararono per tre giorni in tanti punti", rileva Colajanni, "tra i soldati avrebbero dovuto essere numerosi i morti e i feriti per arma da fuoco. Ma la forza non ebbe che due morti [...] il primo venne ucciso da una scarica della truppa; il secondo non si sa se venne ucciso per arma da fuoco o per la caduta di un comignolo sul capo". La verità è che a Milano non ci fu nessuna insurrezione organizzata e premeditata. Lo scrisse in quei giorni perfino il Corriere della Sera, giornale tutt'altro che antigovernativo: "Un residuo del grosso della manifestazione si ridusse in via Melchiorre Gioia [...] tennero conciliabolo, emettendo di tanto in tanto grida ed agitando in alto i bastoni, i cappelli ed i fazzoletti". Strani rivoltosi: improvvisano un "conciliabolo" in una strada ed agitano armi molto pericolose come i bastoni, i cappelli ed i fazzoletti. La protesta popolare a Milano ci fu, e le barricate anche. Ma fu una protesta spontanea ed improvvisa, scoppiata nonostante l'opposizione dei capi socialisti, che fecero di tutto per indurre gli operai alla calma. Nè i vari Turati avrebbero potuto fare altro: la rivoluzione non era nei loro programmi. Conclusa con tanto successo l'operazione, il generale Bava Beccaris - che aveva diretto la campagna dal suo quartier generale piazzato teatralmente sotto una tenda in Piazza Duomo - ebbe la sua ricompensa: il marchese Di Rudinì - presidente del consiglio dei ministri "galantuomini"- gli telegrafò il suo compiacimento, ed il 6 giugno 1898, alle ore 21,20, il re gli mandò il seguente telegramma: Ho preso in esame le proposte delle ricompense presentatemi dal ministro della guerra a favore delle truppe da lei dipendenti e col darvi la mia approvazione fui lieto e orgoglioso di onorare la virtù di disciplina, abnegazione e valore di cui esse offersero mirabile esempio. A lei poi personalmente volli offrire di motu proprio la Croce di Grand'Ufficiale dell'Ordine Militare di Savoia, per rimeritare il grande servizio che Ella rese alle istituzioni ed alla civiltà e perché Le attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della patria. Umberto. Due anni dopo, anche "Sua Maestà" ebbe la sua medaglia: gliela consegnò un anarchico con un colpo ben assestato nel petto. Ma la "Croce" non fu tutto: più tardi, il valoroso generale fu nominato senatore. La "Patria", infatti, è solita premiare i suoi figli migliori: a qualcuno dà un seggio al senato, ad altri una privativa di sali e tabacchi. Perfino il cardinale di Milano, Ferrari, aveva paternamente ammirato e religiosamente approvato la provvidenziale energia di Bava Beccaris, il quale era stato elogiato e ringraziato anche dal consiglio comunale di Milano e dalla deputazione provinciale. La carneficina non fu che l'aspetto più raccapricciante dell' "eroica lotta vittoriosa" che aveva salvato la "Patria", la monarchia e perfino la città. Cessato il massacro, Bava Beccaris fece sciogliere associazioni e circoli "sovversivi" e cattolici, ed arrestare deputati e organizzatori socialisti, repubblicani, anarchici. La polizia lavorò con encomiabile solerzia, e favori talmente le delazioni, da ricevere oltre cinquemila denunce anonime. Così "la libertà, l'onore, la posizione dei cittadini furono lasciati in balia di miserabili che per invidia, per rancore, per bassa speculazione si abbandonarono all'infame mestiere di spia". Dopo gli arresti, le condanne. A Filippo Turati, il quale si era prodigato non per incitare gli operai alla rivolta ma per placarli e indurli a subire la violenza, furono inflitti 12 anni di carcere per "eccitamento all'odio di classe". La sua compagna Anna Kuliscioff fu condannata per propaganda socialista a due anni. I quotidiani Il Secolo e L'Italia del Popolo vennero soppressi ed i loro direttori condannati a 6 e 4 anni. Tre anni furono inflitti ad Albertario, sacerdote e giornalista cattolico. I tribunali militari fecero un ottimo lavoro: nonostante che gli agenti deponessero palesemente il falso, i giudici condannarono gli imputati. La questura, per esempio, denunciò che in casa di un certo dottor Ceretti c'era stata una riunione notturna di anarchici, repubblicani e socialisti, ma non fu in grado di precisare nome e cognome dei partecipanti: gli agenti, dunque, denunciavano come sovversivi persone di cui non conoscevano neppure il nome. Guardie della questura deposero in un processo di aver riconosciuto i tumultuanti guardando "attraverso il buco della serratura". I tumultuanti non erano tre o quattro, ma una grande folla, e 64 imputati, identificati in quel modo, furono severamente condannati. La falsità dei rapporti, scrive Colajanni, talora è umiliante anche per un poliziotto italiano. La questura di Milano accusa il professor Angelo Cabrini di essersi incontrato con Anna Kuliscioff ed altri il 6 maggio pomeggio a Milano in via dell'Unione. Cabrini, invece, dimostra che quel giorno si trovava a Mendrisio, dove insegnava: lo attesta il preside dell'istituto. Ciononostante, lo condannano a tre anni di reclusione e 1000 lire di multa. E perché? Per aver parlato quel giorno con la Kuliscioff a Milano, pur avendo provato che si trovava altrove. Nel processo per i disordini di Resina, un brigadiere accusa l'imputato di avergli opposto resistenza afferrandogli la sciabola; tant'è vero, dice, che l'accusato ha ancora qualche taglio nelle mani. Ma l'imputato apre le mani e mostra che sono "vergini di qualunque ferita". Ma ai giudici non interessa la verità. A Napoli, per esempio, il presidente di una sezione del tribunale militare che giudica i "rivoltosi" di Resina dice ad un imputato: "Negate pure se volete: ma io vi avverto che non crederò una parola di quanto direte". E ad un altro imputato, che dice di poter provare con testimoni che afferma il vero: "Oh! per me i vostri testimoni valgono zero. Per me i testimoni buoni sono i carabinieri e le guardie". Non meno eroicamente si comportava il colonnello Mondino, presidente della 1a sezione del tribunale di guerra a Napoli. Ad un imputato, proprio all'inizio della causa, dice: "Questo è un aggravante: farà pesare qualche mese di più sulla vostra schienaccia" Due donne di Torre Annunziata, già condannate a tre anni di reclusione dalla sezione del tribunale militare presieduta da un altro colonnello, per aver "capitanato la dimostrazione nel loro comune", compaiono dinanzi a Mondino per una analoga imputazione. Al primo interrogatorio, l'ufficiale si affretta a rassicurare una delle imputate: " Va bene, vi hanno già accomodato tre annetti; ora vi prenderete il resto" E poiché le due donne piangono, le brutalizza gridando: " Non è tempo di piangere, non vi trovate davanti al confessore". E fa loro appioppare altri tre anni. Il signor colonnello - scrive Mocchi - non si è lasciato sfuggire occasione per far dello spirito, dalla prima seduta, quando per burlare un povero sordo, certo Tafuri, si permetteva di cominciare il rituale interrogatorio delle generalità dicendo: "Stai bene di salute?", affinché l'altro, ignaro di così tenera premessa, rispondendo " Tafuri mi chiamo", sollevasse l'ilarità dell'uditorio. Ad Abbruzzese, venditore di fiori, che si lagnava di essere stato arrestato, senza ragione, da una guardia, dice: " Ma ha fatto, in ogni caso, benone, perché voialtri siete noiosi come le cavallette". Ad un imputato che si difende risponde : "Ah! son belle bale. Voi ne avete fatte più di Bertoldino in Francia". Che dire del rispetto della difesa? Imp. - Debbo dire mezza parola. Pres. - Dite pure. Imp. - Domandate al signor brigadiere ... Pres. - Oh! ne avete già dette cinque di parole. Basta! Ed ecco cosa accade nel processo di un anarchico, Michele Acanfora. Il pubblico ministero afferma " che gli anarchici debbono essere considerati come delinquenti volgari e non come formanti un partito politico" e chiede che all'imputato vengano inflitti due anni di reclusione. Alla fine della causa, prima di ritirarsi in camera di consiglio, il colonnello Mondino rivolge all'imputato la domanda rituale se ha qualcosa da dire. E l'imputato: " Il P.M. ha ritenuto che l'anarchia non è un partito politico: ma invece è l'unico partito che può dirsi basato su basi politiche possibili [...]". Il presidente lo interrompe : " Ma questo non ci importa, venite al fatto". E l'imputato: " Dunque non posso parlare, allora vi prego di condannarmi al massimo [...]" Lo condannano a due anni di carcere e 18 mesi di sorveglianza. Ascoltata la sentenza, Acanfora grida: " Viva l'anarchia". E Mondino " scatta e prega il P.M. di fare la sua requisitoria contro l'Acanfora per il nuovo reato". Il p.m. chiede che l'Acanfora sia condannato ad un anno di reclusione e 500 lire di multa, in aggiunta alla pena precedente. Il tenente Tobia, difensore d'ufficio, raccomanda l'Acanfora alla clemenza del tribunale, pregando di ritenere quel grido un'aberrazione mentale. L'imputato si alza e dice: "Prego il tribunale di non ritenere quanto ha detto il difensore, poiché Michele Acanfora è nella pienezza delle sue facoltà mentali". Il tribunale gli infligge altri tre anni di reclusione per incitamento alla guerra civile. A Firenze, in un processo per i fatti del maggio 1898, poiché l'imputato, il fornaio Bettani, nega le accuse di un maresciallo dei carabinieri, il presidente bruscamente afferma : " Non esito a credere piuttosto al valoroso maresciallo, che al Bettani, ch'è un pusillanime". Il giudice aveva ragione: gli uomini dell'ordine non possono essere che valorosi. Forse non era un valoroso quel comandante del 23 Reggimento Fanteria, che il 10 maggio 1898 così ammoniva i suoi soldati? Viene segnalato che in molte località si sparò in aria per spaventare i facinorosi. È tempo. perdio, che si spari orizzontalmente per soffocare dal principio un movimento che altrimenti si estenderà sempre di più. Se così impiegati, pochi uomini sono sufficenti contro grandi moltitudini. Al parlamento, per iniziativa dell'opposizione, si parlò degli eccidi. Ma il ministro degli interni, il generale Pelloux, si rifiutò di rispondere promettendo che avrebbe pubblicato una relazione. Ammoniva però di non dimenticare che " non sempre si può dire tutto al pubblico perché certe cose e bene che il pubblico non le sappia". Affermava, cioè che avrebbe mentito. La menzogna non era una tecnica nuova. Nuova era il coraggio di proclamarne l'utilità. Il governo, però, poteva essere tranquillo: i suoi sostenitori non l'avrebbero abbandonato. chi mai, infatti, avrebbe osato attaccare il sistema, affermando che la menzogna era un delitto? Anzi, esprimendo al senato l'opinione della maggioranza, Giuseppe Saracco osò perfino affermare che dire la verità sarebbe stato pazzesco per il governo. Vale la pena di ricordare che il Saracco divenne poi presidente del senato e, più tardi, del consiglio dei ministri. Menzogna, provocazione, violenza: così si governa in Italia. Nel giugno del 1899 il governo è chiamato a rispondere, alla camera, a un'interrogazione sull'arresto arbitrario di Giuseppe Prampolini e di altri socialisti a Brindisi. Il sottosegretario agli interni, pur sapendo che i giudici del tribunale di Lecce hanno accertato la falsità delle accuse della polizia assolvendo gli imputati per inesistenza di reato, risponde con le stesse menzogne che erano servite agli agenti per mettere in galera e denunciare gli arrestati. Il governo, anzi, invece di biasimare e punire gli agenti colpevoli. incita il magistrato a correggere in appello la sentenza, riconoscendo per vero la falsità e condannando gli imputati innocenti e falsamente denunciati. La verità e rinfacciata al governo dall'ex anarchico Andrea Costa, il quale dice che Prampolini avrebbe dovuto parlare - non in un'osteria, ma "nella sala a pianterreno dell'albergo della ferrovia" - delle prossime elezioni amministrative. E fa rilevare che la questura aveva dato il suo permesso, purché la riunione fosse stata privata. Vi potevano intervenire, quindi, solo chi avesse un biglietto di invito. Guardie di polizia, in borghese, tentano di entrare senza biglietto, per poter dimostrare che la riunione è pubblica e quindi proibirla; ma sono fermati da un "uomo che si regge sulle grucce", il quale ha il compito di ritirare i biglietti all'ingresso. I questurini, però, con "uno spintone lo gettano a terra", e Prampolini, "per non dar pretesti a tumulti", rinuncia a parlare. Le guardie, tuttavia, l'arrestano, con alcuni suoi compagni. "Ella dice - conclude Costa - che non sa se il procuratore generale ricorrerà. Mi dispiace che Ella abbia detto questa frase, perché questo è un incoraggiare a commettere, oltre che il reato di arresto, anche un altro reato, quello di condanna per parte della Corte d'appello". Ma chi avrebbe potuto portare dinanzi a un giudice, come imputato il governo? E quale giudice l'avrebbe mai condannato? Accussasse pure, dunque, l'opposizione: il governo era abbastanza forte per consentirle perfino le accuse più infamanti. Poi alla prima occasione, avrebbe saputo vendicarsi. Per questo, Turati aveva potuto dire al presidente Di Rudinì che anche lui, come i suoi predecessori, violava e faceva violare dai suoi agenti i diritti più elementari dello statuto; impediva con la violenza "il contatto fra gli eletti del popoli" al parlamento e i loro elettori; scioglieva le camere del lavoro; si serviva dei metodi polizieschi " più ripugnanti e detestabili"; censurava i telegrammi privati; sollecitava lo spionaggio politico "nella forma più ridicola", facendo pedinare i deputati socialisti; mandava alla polizia " circolari segrete in materia di libertà, opposte ed in contraddizione con la legge scritta". Perciò, diceva Turati, "i municipi diventano succursali della polizia politica; i sindaci si mutano in birri [...] negano il certificato di buona condotta a maestri ed impiegati onestissimi, solamente perché sospetti di idee non conformi ai canoni della Santa Chiesa borghese". (Domenico Tarantini - La maniera forte Elogio della polizia Storia del potere politico in Italia: 1860-1975 Bertani editore) I "tumulti" del 1898 tra tribunali militari e corte di cassazione L'anno 1898 vide alcuni "tumulti" in varie parti del paese: si trattò in generale di incidenti di piazza sorti spesso spontaneamente, ed assai lontani dal costituire veri e propri tentativi insurrezionali, ai quali si rispose, da parte delle autorità pubbliche, con durezza senza pari (stati di assedio in alcune parti del territorio nazionale, morti sulle piazza, tribunali militari ecc.). Sulle cause di questi incidenti molto allora e in seguito è stato scritto. Non è qui, ovviamente, il luogo adatto per fornire una spiegazione completa di quei fatti. Per una indicazione sintetica di quelle vicende è ancora valido quanto scritto a caldo da un anonimo commentatore della più volte citata Rivista penale Sui disordini testé avvenuti in diverse parti della penisola e che ebbero il loro epilogo a Milano, non è ancora possibile parlare con piena cognizione di causa. Ciò che può dirsi finora è questo soltanto: che cioè la ragione apparente di essi, il rincaro del pane, non ne fu, generalmente, se non un pretesto; che la loro repressione fu sovente cieca, selvaggia e incoerente (tant'è vero che a Milano, di fronte a uno o due morti fra i soldati, stanno un centinaio, almeno, di morti fra i rivoltosi quasi inermi); e che qualunque sia stata l'influenza dei partiti così detti sovversivi, la vera causa latente, profonda e persistente di questa come di altre tante sommosse che vennero travagliando l'Italia da un pezzo a questa parte è il malcontento, il disgusto delle popolazioni per il modo con cui sono governate, per l'eccesso e la sperequazione dei balzelli, per il trionfo della immoralità e della corruzione, per la mala amministrazione della giustizia, per la indebite ingerenze e clientele che inquinano tutta la vita pubblica, per la sopraffazione dell'intrigo che ha invaso tutti e tutto e che si ritiene indispensabile coefficiente di ogni successo, onesto o meno che sia. Quanto alle conseguenze materiali dei "tumulti", sempre secondo la Rivista penale, un po' di panico, un po' di ostentazione dell'energia governativa dell'ultima ora, un po' la tendenza caratteristica del soldato a ingrandire i pericoli e le proprie gesta, tutto contribuì ad esagerare l'importanza dei tumulti; e fa compassione vedere, da una parte tanti rispettabili ufficiali affannarsi a costruire procedimenti e giudizi intorno a cospirazioni e alti tradimenti ... da burla e, dall'altra parte, una continua sfilata di femminucce e di adolescenti, imputati di aver fatto e promosso la guerra civile ... coi ciottoli e con le tegole! Lo stesso famoso processo ai giornalisti di Milano ha fatto pietà per le sue risultanze I tribunali militari cominciarono a funzionare dai primi giorni del maggio 1898. A Milano, in virtù dei pieni poteri conferitegli, con un bando del giorno 8 di quel mese, il tenente generale Bava Beccaris investiva delle funzioni di tribunale di guerra, il tribunale militare territoriale di Milano, deferendogli la cognizione (oltre che dei reati previsti nel libro secondo, parte prima, del codice penale militare, commessi da persone estranee alla milizia in occasione di dimostrazioni, tumulti e rivolte) dei delitti di favoreggiamento, istigazione a delinquere, eccitamento alla guerra civile ecc. previsti nel codice penale comune. Il tribunale di guerra di Milano cominciava a funzionare il giorno 22 successivo. Alla fine di giugno le sue sezioni avevano esaurito 67 processi, tutti, tranne quello cosiddetto dei "giornalisti", di scarsa importanza: quello per le barricate di corso Garibaldi e via Moscova celebratosi il 7 giugno con 19 imputati (4 prosciolti, 15 condannati a pene varianti da un anno e 6 mesi di reclusione ad un mese di arresto), quello per i disordini di via Napo Torriani, svoltosi il 14 di giugno con 13 imputati, comprese tre donne (10 giudicati, perché tre erano degenti in ospedale per le ferite riportate, 2 prosciolti, 8 condannati a pene varianti da 5 anni di reclusione e 3 anni di vigilanza a 70 giorni di detenzione), quello per il saccheggio dell'oreficeria Amodeo a porta Ticinese, uno degli episodi che più aveva turbato gli animi, svoltosi il 12 giugno con 6 imputati (tutti condannati a pene varianti da 10 anni di reclusione e 3 anni di vigilanza a 2 anni di reclusione), quello per i fatti di porta Vittoria, con distruzione di fili telegrafici, barricate e .. oltraggi ,svoltosi nei giorni 23 e 24 giugno con 60 imputati (10 prosciolti, 50 condannati a pene varianti da 10 anni di reclusione e 3 anni di vigilanza al ... ricovero in casa di correzione sino ala maggiore età per due minorenni) e, infine, quello degli anarchici arrestati al confine svizzero, svoltosi il 28 giugno con 8 imputati (tutti condannati a pene varianti da 18 a 6 mesi di detenzione). Davanti al tribunale di guerra di Firenze, il processo più noto fu quello per i tumulti avvenuti in piazza Vittorio Emanuele, il giorno 6 maggio, fatti per i quali era stato spiccato mandato di cattura anche contro il deputato Pescetti. Gli imputati erano 45, sei furono assolti. Nei confronti degli anarchici venne ritenuto provato il complotto e tutti furono condannati a pene varianti da 7 anni e 7 mesi di reclusione a 10 mesi. Gli altri imputati ebbero condanne da 3 a 15 mesi. Vennero processati anche quattro preti, don Selmi, don Mariano, don Dicomani e don Orsucci, tutti imputati di istigazione a delinquere per aver diffuso dei ritratti del papa con dietro scritte frasi sovversive. Tutti si protestarono ossequianti alla legge e devoti alla patria. Tutti vennero prosciolti. Terzo in ordine di importanza il processo contro 17 donne di Livorno che avevano assalito e saccheggiato due forni. Tutte vennero assolte dalle imputazioni di danneggiamento, due anche da quella di violenza contro la libertà di commercio, le rimanenti furono condannate per questo titolo di reato a pene varianti da 2 mesi di detenzione e 100 lire di multa a 8 giorni di detenzione e 83 lire di multa. Il tribunale di guerra di Napoli fu quello che ebbe maggiormente a "gravare la mano", a tal punto che le pene eccessive inflitte dettero luogo alla presentazione di un'interpellanza in senato. Gli studenti socialisti (Labriola e Fasulo latitanti, Wonderling, Del Giudice, Giliberti, Giudicepietro, Meraviglia, tutti studenti, D'Ignazio e Di Giacca, sarti, Oriente, meccanico) i quali dopo la commemorazione dello studente Muzio Mussi, rimasto ucciso nei tumulti di Pavia che avevano preceduto i fatti di Milano, commemorazione tenuta da Arturo Labriola, avevano dato inizio ad una manifestazione per le strade al grido di "Viva la rivoluzione sociale, morte a Umberto I", vennero condannati tutti, tranne uno, a pene varianti da 5 anni di reclusione e 2 di vigilanza (Labriola) a 4 mesi di detenzione. Venne anche processato il capo dei giovani anarchici napoletani, Michele Acanfora, ventiduenne, il quale ribadì nel corso del processo le sue idee, pur negando di aver preso parte ai disordini, Ciononostante fu condannato a 2 anni di reclusione e a 18 mesi di vigilanza. Non appena udita la sentenza, egli ebbe a gridare "Viva la rivoluzione sociale, viva l'anarchia", per il che, a tamburo battente, fu condannato ad altri tre anni di reclusione. Nel mese di luglio a Milano si svolse il processo dei "rivoltosi" asserragliatisi nel convento dei cappuccini (l'assalto al convento dei cappuccini, dove si erano rifugiati a forza alcuni manifestanti, con l'apertura da parte dell'esercito di una breccia nel muro dell'orto e la successiva cattura dei frati, era stata uno degli episodi più "gloriosi" delle quattro giornate), quello dei ferrovieri per incitamento allo sciopero, quello delle barricate di porta Ticinese, di via Anfiteatro, di via Moscova, quello per il saccheggio di palazzo Saporiti (il mobilio del palazzo era stato utilizzato per le prime barricate), un altro per i disordini di Como, un altro per i disordini di Monza, ancora per i disordini di Luino (dove si era tentato di commemorare i morti di Milano). Nello stesso mese di luglio si aprì il processo cosiddetto "dei giornalisti". Il tribunale di guerra di Firenze continuava ad essere sommerso di "lavoro", tanto è vero che alle sue due sezioni già in funzione, ne era stata aggiunta una terza. Quest'ultima venne inaugurata con un processo contro il notissimo drammaturgo popolare Ulisse Barbieri; con lui erano imputati Amilcare Cipriani, latitante, ed alcuni anarchici di Santa Sofia. Il Barbieri venne assolto per inesistenza di reato "considerando che fu strumento inconscio del partito che sfruttava il suo nome e gli procurava fama di sanguinario". Tutti gli altri, eccetto uno, vennero condannati per associazione a delinquere. Davanti ad un'altra sezione dello stesso tribunale era stato spedito l'avv. Giuseppe Emanuele Modigliani di Livorno, venticinquenne, per rispondere di incitamento all'odio tra le classi sociali fatto attraverso la propaganda socialista. Fu condannato a sei mesi di detenzione e seicento lire di multa. Il processo di maggiore gravità che ebbe a svolgersi davanti alla prima sezione del tribunale riguardò i fatti di Figline (3 maggio 1898), dove si erano avuti un morto e tre feriti, dei quali uno, il delegato di pubblica sicurezza Giannotti, era rimasto per parecchio tempo tra la vita e la morte, avendo avuto un polmone attraversato da una pallottola. La pubblica accusa aveva raggruppato gli imputati in tre categorie: quelli che costituivano la mente direttiva (i repubblicani Luigi Bernardi, consigliere comunale e presidente del tiro a segno, l'avv. Fulvio Torsellini, Pietro e Gino Sorbi), quella del braccio esecutivo, quella degli "illusi seguaci". In quella occasione erano stati assaltati anche i locali del tiro a segno e ne erano state asportate le armi. Il pubblico ministero era severissimo nella sua requisitoria: per gli esecutori richiedeva infatti da 25 a 30 anni di reclusione, per la "mente", per incitamento alla guerra civile, da 10 a 4 anni. Il tribunale riduceva tuttavia abbondantemente le richieste del pm condannando uno solo degli imputati a trenta anni ed uno a venticinque anni di reclusione. I quattro ispiratori vennero ritenuti responsabili soltanto di istigazione a delinquere e condannati a pene varianti da due anni a sei mesi. Il tribunale di guerra di Napoli, dal canto suo, condannava Eduardo Scarfoglio, direttore e Federico Zugliani, gerente de Il Mattino, il primo ad otto ed il secondo a quattro mesi di detenzione per aver riprodotto da Il Secolo il racconto della sommossa di Milano, "riferendo ed in parte esagerando i fatti avvenuti in quella città, e incitando così alla disobbedienza della legge e all'odio tra le classi sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità". Lo stesso tribunale giudicava anche l'avv. Vincenzo Menzione, accusato di associazione a delinquere, avente lo scopo di commettere delitti contro i poteri dello stato, per aver, fin dal 1891, a Napoli, fatto parte, nella qualità di presidente, se non di fondatore della società Cattolica Leone XIII, Federazione Napoletana, Unione Meridionale, Operaia Monarchica Meridionale, Circolo Ferdinando Pio di Borbone, costituitesi allo scopo di incitare l'odio contro il governo e le classi sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità e di mutare, occorrendo, violentemente le basi fondamentali dello stato; di incitamento alla guerra civile, per avere, dal '91 sino al 13 maggio 1898, procurato, con parole, scritti e fatti, di suscitare la guerra civile nelle province dell'antico reame delle due Sicilie e nel Lazio, al fine di farvi restaurare la dinastia borbonica ed il potere temporale del papa. Il tribunale lo riteneva tuttavia colpevole soltanto di istigazione a delinquere e lo condannava a due anni di detenzione. La "triste litania" dei processi militari continuava anche nel mese di agosto. A Firenze ("dove pare che non ci fosse ragione al mondo di proclamare lo stato di assedio") vennero portati in tribunale "i fatti" di Sesto, i fatti di Prato, i fatti di Arezzo, i tumulti di Pistoia, le bande di Empoli e, per non andare più oltre (anche per evitare il rischio che chi ci leggerà fra qualche anno possa seriamente credere che vi sia stata una rivoluzione) i fatti di Firenze". Il principale imputato era ancora una volta il deputato Pescetti, sfuggito alle grinfie del regio commissario straordinario dapprima riparando in Montecitorio, nel palazzo della Camera, quando lo si voleva arbitrariamente arrestare a Roma, cioè fuori dal territorio soggetto allo stato di assedio, poi andando esule in Francia. Il Pescetti era accusato, come agente principale, di aver eccitato alla "devastazione e al saccheggio, conseguendo in parte l'intento, nel fine di mutare violentemente la costituzione dello stato" e prendendo parte in modo diretto alle sommosse da lui provocate. Venne condannato a dieci anni di reclusione ed alla interdizione perpetua dei pubblici uffici. Un suo preteso complice, Mario Aglietti, il quale in precedenza era riparato all'estero, si costituiva nella imminenza del giudizio e veniva assolto. Il tribunale di Firenze assolveva anche Eugenio Azzerboni, notissimo tra gli operai socialisti della Toscana ed altri cinque suoi compagni. Lo stesso pubblico ministero aveva chiesto l'assoluzione per inesistenza dei fatti. Questi si erano svolti come segue: l'Azzerboni era stato accusato di essere sorpreso mentre teneva una conferenza sovversiva presso lo storico scoglio di Calamartina (Grosseto) ai suoi coimputati che, alla fine, si erano abbandonati a grida sediziose. In realtà l'Azzerboni era stato trovato a Calamartina, ma scamiciato, con le gambe in acqua intento a ... pescare le ostriche, insieme con i suoi compagni! Non mancarono neppure le solite infondate delazioni. Così, scoppiati i disordini, tale Calogero Sciascia-Sicurelli aveva mandato ai questori di Firenze e Milano lettere e documenti che tendevano a compromettere parecchie persone. La "birbonata" venne scoperta e lo Sciascia condannato a due anni di reclusione per calunnia. I due processi più noti e sui quali maggiormente ebbe a soffermarsi l'attenzione dell'opinione pubblica e dei giuristi furono quelli che si svolsero innanzi al tribunale militare di Milano il 23 giugno ed il 1° agosto 1898. Nel primo (il più volte citato "processo dei giornalisti") erano imputati l'avv. Carlo Romussi, direttore de Il Secolo, Gustavo Chiesi, direttore de L'Italia del popolo, l'avv. Bortolo Federici, il professor Stefano Lollini, Anna Kuliscioff, Costantino Lazzari, Ulisse Cermenati, Paolo Valera, Arnaldo Seneci, tutti direttori di giornali. Insieme con socialisti, repubblicani ed anarchici era stato rinviato a giudizio anche don Albertario, direttore dell' Osservatore Cattolico per alcuni articoli "reazionari" apparsi sul suo giornale. Il processo, apertosi il 16 giugno, si presentava totalmente vuoto di fatti, basato come era esclusivamente sulle informazioni biografiche degli imputati, fornite dalla questura. Dopo che il pubblico ministero aveva ritirato l'accusa per l'ex deputato Zavattari e per il Seneci, prendevano la parola gli ufficiali scelti come difensori (non era acconsentito il patrocinio di avvocati davanti ai tribunali di guerra, neppure in ... tempo di pace). Il tribunale, nella sentenza, partiva da una ricostruzione assai sommaria e di parte delle vicende di cui era stato chiamato ad occuparsi: Da vario tempo si erano potentemente costituiti in Milano i partiti repubblicano e socialista, che crearono la Camera del Lavoro, vari circoli, associazioni e leghe di resistenza, le quali, sotto la parvenza del benessere materiale degli operai, dovevano nella mente dei capi essere per loro strumento da valersene in una propizia occasione. Per far propaganda delle loro idee i partiti si valsero dei giornali L'Italia del Popolo e Secolo ed altri ne crearono quali la Lotta di classe, Il Popolo Sovrano, la Critica Sociale e tutti uniti intrapresero una attiva campagna sussidiata da frequenti conferenze, pubblicazioni di opuscoli e foglietti sovversivi, ispiranti negli operai meno abbienti desideri che non sarebbe possibile soddisfare o che lasciavano in essi sentimenti d'odio verso le classi più favorite dalla fortuna [..]. A quest'odio concorrevano e lo attizzavano a nuclei di anarchici, i quali non perdevano occasione di pubblici comizi per portare in essi la nota del disordine e far propaganda delle loro teorie rivoluzionarie [...]. Fra i giornali l'Osservatore Cattolico, organo del partito clericale intransigente, per aspirazioni diverse da quelle di altri giornali, tendeva allo scopo di sconvolgere gli ordini politici, vagheggiando restaurazioni che allo stato attuale sono impossibili [...]. Tutti questi partiti, discordi nei principi, ma concordi nel fine, si valsero delle poco floride condizioni economiche del Regno per esagerare con fosche tinte le sofferenze del popolo, inviperendo l'odio tra le varie classi sociali. Sulla base di queste premesse, si sarebbe potuto ritenere che il tribunale attribuisse agli imputati la colpa di essere stati autori ed i capi della "sommossa". Invece, con logica tutta... militare, come fu subito osservato, era lo stesso tribunale a dichiarare subito dopo che "era giusto ammettere che quel moto fu improvviso e che i capi di ogni partito furono sorpresi dagli avvenimenti". Nella sostanza gli imputati vennero tutti processati e condannati per quello che avevano scritto e detto negli anni precedenti, quando i moti di maggio erano ancora di là a venire. Un primo gruppo di imputati (Callegari, Castelnuovo, Cerchiai, Gabrielli, ecc.) vennero pertanto condannati per essere anarchici e per non aver mai tralasciato "sino agli ultimi giorni di far propaganda delle loro teorie sovversive". Il Chiesi ed il Romussi, repubblicano il primo, radicale il secondo, vennero condannati perché negli articoli che da lungo tempo scrivevano sui loro giornali, attaccavano continuamente le istituzioni e le autorità, eccitavano all'odio di classe e, colla lunga serie non interrotta di quegli articoli, crearono l'ambiente dal quale scaturirono i recenti disordini: la loro opera nella quale si mantennero sino alla soppressione dei loro giornali, costituisce il fatto materiale diretto a suscitare la guerra civile ed a portare la devastazione ed il saccheggio, come purtroppo avvenne, sebbene ciò non fosse in quel momento da essi desiderato e sia avvenuto per cause indipendenti dalla loro volontà. Il Lazzari, il Gatti, il Valsecchi, la Kuliscioff ed altri vennero condannati perché tutti sono propagandisti e da molto tempo non hanno trascurato occasione di riunioni o conferenze per eccitare gli operai e per parte della signora Kuliscioff le operaie a premunirsi contro i loro padroni eccitando l'odio di classe, preparando il terreno alla rivolta, continuando nell'opera loro fino a che la rivolta scoppiò e della quale devono quindi ritenersi in varia misura istigatori. Quanto a don Albertario, la ragione della sua condanna andava ricercata, secondo il tribunale, nel fatto che gli articoli del giornale da lui diretto gareggiavano cogli altri per la loro violenza, così da attaccare con sottile ironia la monarchia e le istituzioni, seminando l'odio di classe fra contadini e padroni e fra altre classi sociali e distogliendo buona parte del clero da quell'opera di pacificazione che per la sua missione sarebbe destinato a compiere, costituendo in tal modo un fomite alla rivolta anche con articoli violenti, quando questa era già scoppiata. Il secondo processo contro Turati, De Andreis e Morgari si concludeva con il 1° agosto successivo. Dopo aver offerto la solita ricostruzione ad hoc, per di più assai contradditoria, dei fatti, dai quali del resto Turati usciva con veste tutt'altro che sovversiva (si leggeva infatti che a Milano) ove il rincaro del pane non poteva essere causa sufficiente, la spinta fu data da un manifesto diretto ai lavoratori italiani, nel quale si leggono frasi eccitanti alla ribellione e che, stampato nel giorno 5 maggio, fu divulgato nel pomeriggio del giorno successivo nelle località di ponte Seveso e Napo Torriani ove è maggiore il numero degli operai addetti ai vari stabilimenti industriali colà esistenti. Quel manifesto essendo stato colpito da sequestro della procura generale, fu seguito l'arresto di uno degli spacciatori, ma alcuni operai cominciarono subito a tumultuare ed astenersi dal lavoro, reclamando la liberazione dell'arrestato. Informato di quanto avveniva in quella località, l'accusato Turati vi si recò subito con l'ora condannato in contumacia Dino Rondani e, parlando agli operai, promise di intromettersi presso le autorità onde l'arrestato fosse posto in libertà, e raccomandando loro di rimanere tranquilli, disse che quello non era il momento opportuno per scendere in piazza, che quel momento lo dovevano scegliere loro e non la questura e che quando quel momento fosse venuto, egli sarebbe stato poi con loro a fare le fucilate. Il Turati recatosi dal questore, dal procuratore del re ed alla prefettura, ripeté con parole certo meno accentate lo stesso concetto, ed ottenne la liberazione dell'arrestato, la quale fu concessa nella speranza di evitare mali maggiori. Recatosi nuovamente il Turati dagli operai rese conto delle sue missione e si allontanò il tribunale indicava le ragioni per le quali gli imputati erano responsabili dei reati loro ascritti Non potranno perciò essere creati tribunali e commissioni straordinarie"; il primo titolo del codice penale prevedeva l'insurrezione, la guerra civile ed i reati connessi; l'art. 9 del codice di procedura penale, dal canto suo, deferiva la conoscenza di questi reali alle corti di assise. E pertanto, al cospetto di questo sistema completo di norme, se si fosse ritenuto che, ogni qualvolta vi fossero bande armate, insurrezioni ecc., il governo avrebbe potuto legittimamente deferire i relativi reati alla competenza dei tribunali militari, proclamando lo stato di assedio, i tribunali e le corti di assise si sarebbero trovati di fatto ad essere sempre competenti a conoscere di quei reati... eccezzion fatta nei casi in cui essi vi fossero realmente verificati! Accanto a questi vizi per così dire primari, relativi alla stessa istituzione dei tribunali di guerra, le condanne inflitte da questi tribunali ne presentavano anche degli altri, in particolare quello concernente il deferimento ai giudici militari di persone estranee alla milizia per delitti previsti dal codice penale comune (eccitamento all'odio tra le classi sociali, istigazione a disobbedire alla legge ecc.), laddove l'art. 251 del codice penale per l'esercito concerneva soltanto l'esercito e non la creazione di tribunali militari per chi militare non era; e quello concernente l'estensione retroattiva della competenza dei tribunali di guerra a conoscere di fatti commessi anteriormente alla proclamazione dello stato di assedio. Accanto a queste questioni, universalmente indicate da tutti i giuristi che in quel torno di tempo ebbero a scrivere sulle maggiori riviste di diritto del paese, esistevano quelle relative al "merito della causa", vale a dire all'esistenza concreta di reati attribuiti ad ognuno degli imputati. La cassazione dette una risposta negativa a tutte le questioni sottoposte al suo esame, rigettando i ricorsi ad essa presentati. La corte affermò sì la sua competenza a giudicare dell'operato dei tribunali militari, ma soltanto in caso di incompetenza o di eccesso di potere. Al di fuori di questa dichiarazione di principio (del tutto priva di conseguenze pratiche perché, nei casi sottoposti al suo esame nella seconda metà del 1898, fu lei stessa a dichiarare che questi presupposti non ricorrevano), la cassazione ebbe a ratificare pienamente l'operato dei tribunali di guerra e del governo che li aveva istituiti. Così essa dichiarò legittima la proclamazione dello stato d'assedio con il rilievo che "data la necessità di provvedere con mezzi eccezionali ai disordini interni, sulla quale non appartiene al potere giudiziario di determinare, legittima appieno è la proclamazione dello stato di assedio, perché la salute della patria è suprema legge per tutti"; riconobbe pienamente legittime la creazione dei tribunali di guerra e la estensione della loro competenza ai civili e negò infine che vi fosse stata alcuna violazione in materia di retroattività della legge, perché nessuna violazione al principio della non retroattività delle leggi si avvera se un tribunale di guerra giudica reati commessi prima della proclamazione dello stato di assedio, che siano designati nei bandi, allorquando abbiano una relazione diretta coi motivi d'insurrezione e di rivolta poscia avvenuti, come di causa ad effetti. Allora essi per il loro carattere di permanenza vengono a formare un sol tutto coi reati commessi dopo la proclamazione dello stato di assedio e debbono essere giudicati dalla stessa magistratura che conosce degli altri posteriori. È ciò consono ad ogni principio di giustizia, perché sarebbe ingiusto che potesse sfuggire alle rigorose prescrizioni dello stato di assedio chi ha promosso i fatti che lo resero necessario e rimanessero colpiti da esse coloro che poscia agirono indotti e trascinati dagli eccitamenti malvagi e dalle propagande delittuose altrui. Di fatto le sentenze dei tribunali di guerra ricevettero dalla corte suprema piena e totale ratifica Ancora una volta, per adoperare le parole di un osservatore sempre assi prudente nei suoi giudizi (il fondatore de La giustizia penale, G. Escobedo), si era avuta una manifestazione della "remissività" adottata costantemente dalla cassazione italiana verso qualunque arbitrio del potere esecutivo. IL FEROCE MONARCHICO BAVA Alle grida strazianti e dolenti di una folla che pan domandava il feroce monarchico Bava gli affamati col piombo sfamò Furon mille i caduti innocenti sotto il fuoco degli armati caini e al furor dei soldati assassini "morte ai vili" la plebe gridò Deh non rider sabauda marmaglia se il fucile ha domato i ribelli se i fratelli hanno ucciso i fratelli sul tuo capo quel sangue cadrà La panciuta caterva dei ladri dopo avervi ogni bene usurpato la lor sete ha di sangue saziato in quel giorno nefasto e feral Su piangete mestissime madri quando scura discende la sera per i figli gettati in galera per gli uccisi dal piombo fatal