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ZSCHOKKE -Ein sanfter Rebell. Budapest/ Rudás

Per vivere a fondo l’atmosfera di questi bagni per uomini, bisogna andarci al mattino presto (aprono alle sei). Visti da fuori, ricordano un’imponente centrale termoelettrica alimentata a diesel. Si trovano nella zona centrale della riva destra del fiume.

Quando ci si arriva all’albeggiare, si teme di aver sbagliato indirizzo. Si entra in una sala d’attesa immersa in una luce crepuscolare, dove c’è odore di stantio. Sulle lunghe panche stanno seduti degli ubriaconi senzatetto che fumano sigarette. In un angolo c’è una donna trincerata dietro una bancarella. Vende del tè aromatizzato, immagini sacre, pantofoline da bagno di plastica, cuffie azzurre e rosa, acquavite, gel per doccia, occhiali e riviste. Di fronte, c’è una specie di chiosco dove si vendono caffè, birra e pane.

Sulla destra c’è il baracchino dei biglietti, come nei circhi ambulanti. Bisogna infilare la testa in una finestrella e dire a voce alta cosa si desidera, al che una donna anziana si avvicina strascicando i piedi. Le si vede solo il ventre. Alla domanda se capisce l’inglese o il tedesco, scuote il capo, segna 1000 su un foglietto e lo porge attraverso la finestrella. Le si danno 1000 fiorini, si riceve un biglietto e una vaga indicazione col dito che sembra dire: laggiù a destra.

Si scendono alcuni gradini di una scala. In basso c’è un uomo anziano con i pantaloncini ingialliti. Controlla il biglietto, consegna un perizoma di lino tutto liso e indica dietro di sé. Gli si passa accanto e si arriva nelle catacombe, dove c’è una lunga fila di cabine di legno dipinte di bianco. Talvolta, in lontananza, si vede un vecchio tutto nudo che trascina i passi. Si sente un gorgoglio, un brontolio, un gemito. Le lampadine, dalle quali emana una debole luce, ronzano. Porte che cigolano e sbattono. Sedie che scricchiolano. Carne che batte su carne. Ci si sceglie una cabina libera, ci si spoglia, si appendono i vestiti all’uncino, si indossa il perizoma, si esce nel corridoio e si rimane lì senza sapere cosa fare, con le natiche all’aria.

  Senza che nessuno lo abbia chiamato, ecco che compare un altro uomo anziano. Scrive l’ora con un gesso sulla lavagnetta appesa alla porta, la chiude, consegna la chiave, la chiude una seconda volta con il suo passepartout, indica il numero della cabina, che ci si deve ricordare, mormora in vecchio austroungarico qualcosa del tipo: un’ora e mezza, e poi se ne va strascicando i passi.

  Si seguono i rumori, si oltrepassano altre cabine e docce rugginose e abbandonate, si costeggiano muri che trasudano, si cammina su piastrelle scivolose, si passa accanto a gabinetti andati in rovina, sotto lucernari frantumati, le cui brecce sono turate con giornali gonfiati dall’acqua,  e si arriva al lavacro. Lì c’è un mastro fornaio che si sta insaponando. Lo si osserva e lo si imita (mastro fornaio: perché è bianco come la farina e perché il perizoma ciondola con maestria sotto il suo ventre maestosamente arcuato). L’acqua sgorga piacevolmente calda e morbida dai rubinetti. Ha un tenero profumo di uova marce.

  Si segue il mastro fornaio e si entra dopo di lui nel bagno. E’ una volta oscura, vecchia di cinquecento anni, retta da otto colonne: un misto tra un mattatoio, una mescita di vino e una moschea. La cupola è perforata. Alcuni buchi sono stati coperti con del vetro colorato, altro sono stati lasciati aperti, di modo che il vapore possa uscire. Attraverso le brecce situate ad oriente, la luce del mattino filtra obliquamente nella nebbia che sale. Al centro c’è un grande lavacro, una specie di stagno, dove c’è una dozzina di uomini, tranquillissimi, come bufali indiani nella fanghiglia sotto il sole cocente di mezzogiorno.

  Il mastro fornaio entra per primo. Taglia lentamente l’acqua, senza che ci si  accorga dei gradini sui quali cammina. Infine si butta in avanti, provocando una potente onda di ritorno, si immerge, rimane sott’acqua, risale lentamente in superficie, respira affannosamente, si gira di spalle e non si muove più. Lo si imita. L’acqua è calda come quella di una vasca da bagno. I gradini sono morbidamente arrotondati, di pietra rossa, continuamente calcati, lustrati e levigati da piedi nudi.

  Attorno al lavacro principale se ne intravedono altri, più piccoli. Sulle pareti sono appese delle tavole smaltate con delle misteriose indicazioni in ungherese. L’unica che si riesce a decifrare è quella che riporta la temperatura: in totale sei lavacri, con una temperatura da 15 a 42 gradi. In ogni lavacro ci sono degli uomini, e in ognuno ci si andrebbe volentieri. Gli uomini mormorano gli uni con gli altri, dal soffitto cadono delle gocce, acqua fresca e calda sgorga dalle aperture di pietra, i lavacri si riempiono fino all’orlo. Uomini che escono e scompaiono dietro una porta dalla quale esce del vapore; altri che escono dal vapore e si immergono in un lavacro, ciascuno seguendo un suo proprio metodo.

  Si segue il mastro fornaio nella stanza immersa nel vapore. Qua e là si intravede qualcuno, simile a un’ombra spettrale, in piedi con gli occhi chiusi, quasi trattenendo il respiro. Ci si avvicina e si vede della pelle rossa come quella di un gambero. Lentamente, a tastoni, si esce nell’anticamera, ci si infila barcollando sotto una doccia, ci si rinfresca, si apre un'altra porta e si entra in una sauna a secco. Dappertutto, in piedi e seduti, ci sono uomini anziani, giovani, grassi, magri, alti e bassi: tutti con il perizoma. E questa parlata straniera, con il suo melodioso rimbombo: un’impressione entusiasmante, assolutamente arcaica.

Ad un certo momento, si decide di uscire. Ci si toglie il perizoma, si riceve un telo di lino, anche in questo caso da un uomo vecchissimo, e si arriva in una specie di sala autoptica di un istituto di medicina legale. Qui ci sono delle pancacce rugginose sulle quali sono distese delle mummie avvolte di bianco, che rantolano e russano. Da una camera accanto si sentono provenire gemiti e borbottii.  Di tanto in tanto, una porta si apre e si vede un massaggiatore che entra o esce.

Dopo che ci si è rilassati, si va in cerca della cabina e si aspetta. Appare il vecchio con il passepartout e apre la cabina. Ci si veste, si restituisce il telo di lino. Si nota un altro che se ne sta andando e lascia una mancia. Si fa altrettanto. Appeso alla parete, accanto all’uscita, c’è un vecchio phon. Ci si asciuga i capelli e si esce dal mondo sotterraneo, si attraversa la sala d’attesa della stazione di guarnigione in stato di abbandono, si arriva alla porta e si viene accolti dal sole, che sta sorgendo proprio sopra il Danubio.

Bisogna andarci il mattino presto, perché la composizione degli ospiti dei bagni è particolare: camerieri stanchi per la notte insonne, pallidi perdenti e raggianti vincitori che provengono dal vicino casinò, uomini d’affari, impiegati e operai prima dell’inizio del lavoro, pensionati dopo una notte trascorsa senza sonno. Provengono da tutte le direzioni e da tutti gli ambienti e si ritrovano qui, stanno immersi insieme nell’acqua curativa, dormicchiano, sognano, si svegliano di soprassalto, si fanno massaggiare, si abbandonano a questa beata tranquillità, fanno colazione al chiosco: birra, pane con aringhe, uova, cipolle con sopra della maionese di paprica, un caffè espresso. E così, rinvigoriti e carichi di fatalismo, se ne vanno incontro alla nuova giornata che andrà storta.

A Budapest ci sono tre bagni turchi di questo tipo. Il secondo, il Rac, attualmente è chiuso. Il terzo, il Király, è aperto alternativamente un giorno per gli uomini e un giorno per le donne. Il posto è un po’ più piccolo e accogliente, le temperature non sono così terribilmente torride. Io ci sono andato una sola volta e mi sono ritrovato in mezzo al giubileo di qualche ditta. C’era una cinquantina di uomini anziani che, in taluni casi l’uno sopra l’altro, si trovavano nei vari lavacri e sembravano festeggiare qualcosa. Nelle vasche più piccole e più calde sembrava addirittura che, per mancanza di posto, i colleghi fossero infilati l’uno nell’altro. Non sapevo dove guardare. Speravo di trovare un po’ più posto nella stanza del vapore, e tentai di andarci. Ma lì la calca era tale che non mi rimase altro che farmi largo senza esitazioni attraverso tutta quella pelle viscida e scivolosa. Sgusciai così da un angolo all’altro e approdai infine nella sauna, dove evidentemente, per la maggior parte degli ospiti, c’era un clima troppo caldo e troppo secco. E lì, confuso e sconcertato, cominciai a buttar fuori il sudore accanto ad un procuratore prossimo alla pensione, che teneva lo sguardo tristemente fisso sul nostro adipe mentre il calore gli saliva sempre più alla testa. Quando rischiò di diventare cianotico, cominciai ad inquietarmi e, per non dover assistere alla morte di un estraneo, pensai bene di tagliare la corda. In seguito, mi sono chiesto se forse non si era trattata di una di quelle famigerate orge delle quali di tanto in tanto si sente parlare, un’orgia alla quale avevo insperatamente avuto la possibilità di assistere. Se è così, devo confessare che me l’ero immaginata un po’ diversa.

Questa è una delle particolarità di Budapest: una città piena di stabilimenti termali diversissimi l’uno dall’altro. Non è necessario visitarli tutti, ma chiunque trovi piacevole distendersi nell’acqua bollente, dovrebbe visitarne almeno i due tipi principali. Oltre ai bagni turchi, ci sono anche bagni che risalgono alla fine del penultimo secolo: alcuni in uno splendido stile liberty, con reparti medici, fontanelle di acqua curativa e offerte terapeutiche.

Traducione: MATTIA MANTOVANI