ATTRAVERSO L'OCEANO: La Vita di Emilio Giuseppe Dossena
Emilio Giuseppe Dossena nacque il 10 dicembre 1903 in un piccolo paesino del Lodigiano,
Cavenago D'Adda. Alla morte del padre, a soli dodici anni, la realtà della vita, già di
per sé dura, diventa ancor più gravosa. Con Camillo, il fratello quattordicenne,
mantiene la famiglia, e solo quando i tre fratelli e le due sorelle si sono sposati,
sentendosi svincolato da tutte le responsabilità di capo famiglia, si sposa con la
ventenne Ginevra Cornelia Zacchetti, anche lei lombarda. Dopo pochi mesi dal matrimonio
perde la madre, da molti anni invalida a causa di una caduta accidentale dalle scale.
L'esperienza artistica dell'Accademia di Brera e della Scuola del Castello, frequentate
con Guttuso, Cantatore, Lilloni e Sassu, gli permettono di vivere una vita dignitosa
nonostante i tempi difficili e la propria presa di posizione contro il fascismo.
È in questo periodo che egli inizia ad operare come restauratore di dipinti e decoratore
in stile classicheggiante, professione che manterrà per tutta la vita. In questi ultimi
anni del periodo prebellico si trova di frequente in scontri aperti sia con gli estremisti
di destra che con quelli di sinistra, senza però mai arrivare a situazioni irreversibili,
sostenendo sempre apertamente il proprio cattolicesimo ed attaccamento alla patria senza
reticenze. Nel frattempo dedica tutti i minuti liberi alla produzione da cavalletto,
creando affascinanti opere in stile neoimpressionista, con una tavolozza a base di terre
che danno ai suoi dipinti una suggestività unica ed originale. La prima mostra personale,
presso la Galleria Gavioli di Milano nel 1943, ha un successo strepitoso: pur essendo in
piena guerra, tutte le opere esposte sono vendute! La sua tavolozza ritiene la colorazione
iniziale, con tonalità che riflettono sia l'ambiente privo di forti contrasti di colore
sia la necessità di creare la propria pittura usando pigmenti naturali, per tutti gli
anni quaranta. La rivoluzione industriale ed il boom economico postbellico influenzano la
sua pennellata, che diventa più vigorosa e forse anche più essenziale alla replica
dell'impressione, pur ritenendo un attaccamento al realismo che affiancherà l'artista in
quasi tutta la sua vita artistica. La sue opere si potenziano di verdi e di blu,
impiegando una carica cromatica sempre più esuberante, per la quale egli è rinomato nel
campo pittorico.
Il soggetto preferito rimane la propria prole, dato l'amore smisurato per i figli, ma il
paesaggio entra sempre più nel suo repertorio, ricevendo forti consensi di critica.
Bilanciando il proprio fervore artistico con le attività necessarie a sopperire alle
necessità di una famiglia di grandi dimensioni, egli riesce a dare sempre una vita
rispettabile ai sei figli, pur continuando la propria produzione senza compromessi basati
su considerazioni economiche. In questo periodo egli decora e restaura i castelli di
Parrano e di Monte Giove, in Umbria, e molte ville degli aristocratici e dei capitani
d'industria lombardi. Nel 1968 un'esplosione accidentale rade al suolo il suo studio in
Milano. Egli decide, a quasi sessantacinque anni, di emigrare negli USA, dove amici di
famiglia gli promettono una rivitalizzazione della propria carriera, che a questo punto è
arrivata ad un plateau e pare non possa trovare gli stimoli necessari per un rinnovamento.
L'impatto con l'America è essenzialmente responsabile dell'evoluzione cromatica del
pittore.
Dopo un breve periodo d'assestamento, Emilio Giuseppe si colloca presso lo studio
Berger, dove si trova a restaurare varie opere di grandi maestri del passato. La
necessità di riprodurre la corretta tecnica della pennellata e le varie gradazioni
cromatiche dei capolavori a lui assegnati, in aggiunta ad un suo isolamento dalla società
che lo circonda causato dall'incapacità di colloquiare in inglese, influenzano
inconsapevolmente sia la tecnica sia l'intensità cromatica dei quadri dipinti a New York.
L'artista sceglie di abbandonare il neoimpressionismo, ma lo fa gradualmente e senza
intenzione di etichettarsi. Il neoespressionismo che si può riconoscere nelle sue opere
in quei primi anni dei settanta ha caratteristiche singolari, direi quasi esclusive. La
pennellata è ancor più energica, non essendo più legata alla necessità di riprodurre
l'eventuale verità statica che gli si presenta davanti agli occhi. I soggetti non sono
mai ripetitivi, ricercano un figurativo più semplificato, quasi essenziale, senza
schematismi o restrizioni strutturali. La forma è quasi strappata alla natura, alla
continua ricerca di contenere ed interpretare l'essenza esistenziale ed esprimere queste
nuove, irrefrenabili sensazioni che l'artista prova lontano dall'amata patria. New York e
l'America hanno su Emilio Giuseppe un effetto similare a quello provato dall'amico Mario
Soldati molti anni prima. Ama l'America dei grattacieli, dei musei e delle differenze. Ama
i propri conterranei, anche loro naviganti senza imbarcazione in un'odissea indefinita,
formata di piccoli episodi ma di grandi sacrifici. Odia però di essere classificato come
italoamericano, riconoscendo che questo termine è usato per definire una serie di
stereotipi ai quali egli sente di non avere alcun'affinità. Si ritrova ad affrontare
l'eterno dilemma dell'emigrante: inserirsi senza essere fagocitato. L'artista usa tutta la
sua energia, amplificata dall'odio-amore per New York, per creare opere prorompenti, il
cui unico scopo è di esprimere la propria esigenza di ritornare a vedere i bellissimi
colori della sua Italia. Quello che lui definisce l'assenza di colore della società
italoamericana, il grigio lavorio di tante formichine interessate solo a stipare il loro
deposito di cibo, lo esaspera e lo forza a dipingere con una tavola cromatica sempre più
esplosiva. La forma diventa solo una scusa per esprimere il colore e la loro fusione
diventa l'espressione dell'artista, quasi una liberazione, ricercata e progettata, ma non
per questo artificiale o artificiosa.
Nel 1976 ritorna in Italia, con un bagaglio artistico fondato sulla sperimentazione e sul
ritrovato estro, nonché sul contatto diretto e ravvicinato con i vari Rembrandt, Renoir e
Picasso. In poco tempo la sua pittura è ispirata e suggestionata dagli incantevoli
paesaggi italiani e si ritrova a dipingere in uno stile da molti definito
postimpressionista: l'intensità della tavolozza permane, ma il suo interesse ricade nel
riprodurre abbastanza testualmente la realtà. Il suo senso estetico si è però
intensificato con altre considerazioni, frutto delle esperienze espressionistiche. Di
conseguenza l'impatto visivo per l'osservatore è ragguardevole. I suoi paesaggi
acquistano un'eclatante vitalità che risente del periodo neoimpressionista per la forma e
di quello neoespressionista per il colore.
L'artista è arrivato a concludere il ciclo creativo proprio quando la leucemia incomincia
a togliergli la possibilità fisica di dipingere. Ultima sua opera è il ritratto del
nipote William, imponente per la sua luminosità. Frustrato dall'inabilità di creare
sulla tela, Dossena si dedica a scrivere poesie di un'intensità lirica che rievoca le sue
ultime opere pittoriche. Molti i riconoscimenti, sia per la poesia sia per la pittura, che
negli ultimi anni allietano la vita dell'artista. La Laurea di Dottore Honoris Causa e la
richiesta di firmare il rinomato "muretto" d'Alassio, sfortunatamente, arrivano
postume.