Uhura Message 3
1998 |
Gentile signorina,
Rispondo con piacere alla sua ultima lettera
che, se devo essere sincero, mi ha trovato completamente impreparato
e sorpreso. Innanzitutto posso assicurarle che ogni preoccupazione
riguardo la mia salute è del tutto priva di fondamento,
non ho nessun malessere che non abbia anche qualcun'altro e veramente
(veramente!) è lei che mi mette in pensiero. Vuole davvero
gettarsi in un'impresa così ardua? Anch'io ho vissuto
fino a trentotto anni circa nell'Orfanotrofio, ricovero coatto
per quelli senza famiglia, perché è una vergogna
essere senza famiglia, perché sei colpevole se sei senza
famiglia, e se sei colpevole devi anche essere condannabile,
condannabile e punibile, con la pena dell'Orfanotrofio, con l'obbligo
di una famiglia tragicamente percepita come estranea, la famiglia
dell'Orfanotrofio, il castigo dell'Orfanotrofio, a vita. Ma lei,
e questo m'inquieta oltremodo, appare convinta e risoluta nel
voler attuare le proprie decisioni. Decisioni che io invece non
posso non consigliarle d'abbandonare subito perché troppo
azzardate, imprudenti. Ogni suo passo potrebbe essere rovinoso,
fatale, e sicuramente non potrei mai tollerare sapermene la causa.
Già adesso, al solo pensiero, mi sento soffocare dai sensi
di colpa. No, è meglio, molto meglio, per entrambi, che
lei accantoni ogni progetto. Non è realizzabile. Non è
possibile. Ciò che ha in mente non è possibile,
e per farla desistere ho persino deciso, usandomi violenza, di
raccontarle succintamente il tortuoso dedalo necessario per raggiungere
la mia casa.
Bisogna partire da molto lontano, dall'Orfanotrofio, da quando
ero bambino e cominciai a perlustrare l'edificio dell'Ospedale
per sfuggire l'insopportabile interminabile presenza di quella
famiglia. E precisamente nella primavera del 1970 iniziarono
le mie prime esplorazioni. Tentativi d'evasione destinati ineluttabilmente
a fallire e che mi hanno condotto lentamente nell' attuale condizione.
In quel periodo mi rintanavo spesso nel ripostiglio del locale
adiacente ai bagni poiché era l'unico posto dove ci si
poteva creare un'intimità. Era una piccola stanza con
un paio di sedie rotte ed un armadio di metallo che conteneva
bottiglie di detersivo, rotoli di carta igienica, alcune scatole
di cartone piene di viti, stracci usati, un paio di pennelli
larghi ed altri oggetti che non capivo cosa fossero. Un giorno
mentre giocavo con le viti me ne caddero diverse sul pavimento
e chinandomi per raccoglierle notai sotto i piedi dell'armadio
la base di una striscia scura sulla parete. Spostai allora l'armadio,
cercando di non far troppo rumore poiché era ormai sera
tardi, e dietro si manifestò ai miei occhi sorpresi ed
eccitati una porta di metallo verniciata di rosso. Non aveva
serratura, nemmeno maniglia, per aprirla bastava spingerla, ma
al di là una coltre d'oscurità m'impaurì
e raffreddò al momento la mia curiosità. Mi ripromisi
di tornare il giorno dopo meglio attrezzato. Avevo bisogno di
una lampada tascabile, certo, ma anche di una borraccia con dell'acqua
molto fresca, il mio temperino svizzero, un bastone, dei cerotti,
anche alcuni panini e poi carta e matita. Nei giorni seguenti
incominciai le mie esplorazioni, cercando di spingermi ogni volta
sempre più lontano. Se in principio questi miei viaggi
erano dettati più che altro dalla curiosità, col
tempo acquistai coscienza d'un desiderio via via sempre più
forte e ostinato d'evasione, di fuga; cercavo insomma una via
d'uscita, tutt'a un tratto l'Ospedale non mi bastava più,
mi sentivo soffocare là dentro, e la soluzione poteva
essere solo oltre quella porta, quella porta di ferro verniciata
di rosso.
Le prime volte scesi con cautela. Dopo una rampa di quarantaquattro
gradini ci si trovava in un locale piccolo come uno spogliatoio.
Oltre, un corridoio esposto ad un'inspiegabile corrente d'aria.
Oltre, una stanza identica e simmetrica a quella dalla quale
provenivo. Oltre, un altro corridoio più stretto. Due
persone contemporaneamente sarebbero passate a fatica. In fondo
un piccolo cancello di legno. Superatolo si entrava nel percorso
di connessione sotterranea tra un padiglione e l'altro: tutti
gli Ospedali ce l'hanno. Un reticolo di cunicoli grandi abbastanza
perché due auto elettriche che trasportano imballaggi,
macchinari o scatole di medicinali possano incrociarsi.
Per anni girai in questo labirinto senza trovare la benché
minima via d'uscita. Ormai ero demoralizzato. Poi un giorno il
giornale pubblicò la foto di un passaggio in cui non m'ero
mai infilato e dove era stato rinvenuto un cadavere carbonizzato.
La prima settimana ci fu un eccezionale viavai di poliziotti,
giornalisti, curiosi. Poi sempre meno. Sempre meno. Finché
non si vide più nessuno. Subito andai a battere quella
zona, forse avevo ancora una speranza. La costruzione era proprio
sotto il Padiglione di Salute Mentale. Sembrava l'abside di una
chiesa da cui partivano cinque corridoi. Da uno di essi raggiunsi
una grande stanza vuota. Il soffitto era molto alto e una misteriosa
luce fresca e le pareti bianche e un po' anche la mia stanchezza
mi fecero balenare per la prima volta l'idea di stabilirmi laggiù
per sempre, abbandonando così ogni faticosa ricerca. Ma
fu un attimo. Solo un attimo. Poi mi ripresi, e da là
proseguii attraverso collette fognarie che probabilmente erano
condotti del tracciato romano di acquedotti. In qualche modo
mi trovavo fuori dal perimetro dell'Ospedale, nonostante rimanessi
comunque rinchiuso dentro interminabili canalizzazioni sotterranee
che ogni cento metri si moltiplicavano. Ricordo l'emozione della
prima volta che m'imbattei in un tombino. Che sensazione! Tutti
quei frantumi di voci e di rumori e quelle fette di figure in
continuo movimento! I tombini furono la mia scuola di vita. M'insegnarono
la cosa più importante, il segreto della creazione: È
il buio che partorisce la luce! Ricordo anche i rari ed unici
incontri di quel periodo. Erano animaletti, animaletti furbi,
ma che mi volevano bene. Vivevano in quei moduli di cemento che
sostengono il nuovo tracciato ferroviario di otto binari. Io
c'ero arrivato attraverso le fogne. I moduli sono dei parallelepipedi
di trenta metri, cavi, interrati. Abbassando la testa ci si può
camminare attraverso. Li visitai quasi tutti. Uno di questi mi
condusse sotto la Stazione Centrale: sentivo le ondate di treni
sopra la mia testa, sul mio corpo, sfinito, logoro, e mi convinsi
ingenuamente che per me era arrivato il momento d'emergere finalmente
in superficie. Una banale illusione che... Ma lei sa già
che ciò non si verificò mai. Sotto la stazione
esistono quattro livelli sotterranei ed io non raggiunsi mai
i primi due. Dapprima mi persi lungo un percorso articolato da
un'intricata teoria di stanze, nicchie, corridoi, passaggi, depositi
e saloni. Poi decisi di fermarmi. Abbandonai semplicemente la
ricerca, senza traumi, senza stanchezza. Che senso aveva uscire?
Le motivazioni di un tempo mi apparivano infantili e certo molte
erano ormai completamente dimenticate. Anche il tornare indietro
non aveva più molto significato. Così mi stabilii
in questo deposito di accumulatori elettrici che divenne la mia
casa, la mia sala d'attesa. Sì, perché in fondo
ero convinto che prima o poi sarei di nuovo ripartito, anche
se per il momento quella era la mia stanza definitiva. Usai gli
scaffali come pareti divisorie per creare più vani da
poter destinare, poi, ad attività diverse, di svago, di
riflessione, distrazione, distrazione dalla putrefazione, e anche
di letargo, la sala del letargo, del dormiente, dell'impaziente,
perché spesso ero impaziente ed ogni cosa facessi era
sempre come se fossi in attesa di qualcosa, qualcosa di inatteso.
Sala d'attesa. Provvisoria, dunque. Un'interruzione permanente,
la mia casa, un'interruzione stabile, permanente, tra questi
corridoi sotterranei dove nasce il buio. Io appartengo al buio.
La mia casa appartiene al buio. E proprio per questo mi sento
sempre a disagio, come imbarazzato per essermi impudentemente
impossessato di questo deposito, della mia casa. Qualsiasi sconosciuto
che all'improvviso giungesse quaggiù avrebbe il diritto
d'inquisirmi sulla mia presenza, e se mi chiedesse cosa ci faccio
qui, a casa mia, io non gli saprei rispondere. Sono un intruso,
e come tutti gli intrusi non ho alcun diritto. Lo spazio che
occupo è abusivo e solo nascondendomi posso sperare di
difenderlo. Ecco perché nessuno deve trovare la mia casa.
Ecco perché lei non deve cercare la mia casa: dovesse
trovarla sarebbe la fine, verrei scoperto. E so bene che non
è assolutamente sua intenzione volermi arrecare danno,
farmi del male, ma come vede ciò potrebbe accadere indipendentemente
dalla sua volontà. Inoltre col voler perseguire a tutti
i costi certi obiettivi, si finisce spesso col provocare una
situazione perniciosa che allontana la meta, invece d'avvicinarla.
No, decisamente un nostro incontro sarebbe
attualmente troppo pericoloso per entrambi. La prudenza deve
consigliarci d'attendere, d'aspettare. Bisogna attendere. Bisogna
aspettare.
Suo devotissimo.
(1998)
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