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News: l'Assedio dell'anima e della pelle

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Una partitura per corpi, sguardi, musica e luci. Un film per la televisione che contiene tutto il cinema di ieri, oggi e domani. Una scintilla a 50.000 volt che scocca fra due poli vicini e lontani: la Roma multietnica di questi anni e l'Africa nera delle dittature militari, ovvero l'Occidente murato nel privilegio e il Terzo mondo più miserabile e dimenticato, fusi in una commovente parabola che ci fa toccare con mano la loro dipendenza reciproca. Una storia d'amore e di distanza. Una distanza invalicabile che si scioglie in un incontro purissimo, quasi miracoloso. Come il sole che lampeggia sul mare, inquadrato dal bordo di un vulcano (è la magnifica immagine iniziale, un po' Lightning over water di Wenders e Nick Ray, un po' L'eternità di Rimbaud, con un'eco del folgorante "corto" su Stromboli di Antonioni).
    Liberamente tratto da un racconto di James Lasdun (Garzanti), quasi interamente girato in vicolo del Bottino, dietro Piazza di Spagna, fra interni sontuosi ed esterni popolati di ambulanti di colore, L'assedio non è solo uno dei più bei film di Bernardo Bertolucci. È uno di quei lavori che con pochi elementi illuminano per via poetica tutta un'epoca, una sensibilità, quel grumo di contraddizioni che chiamiamo presente. Ma l'allegoria non sarebbe così toccante se i personaggi non fossero incisi con tanta sicurezza.
    Lui suona il pianoforte, lei gli fa le pulizie. Lui, Mr. Kinski (David Thewlis), è colto, ricco, inglese, taciturno, "un eccentrico e iper-selezionato prodotto del capitalismo europeo", come scrive Lasdun. Lei, Shandurai (Thandie Newton), è africana, testarda,intelligente (studia medicina). E viene dall'inferno, come abbiamo visto nel rapido e violentissimo prologo africano. Ma per costruire i personaggi e i loro sentimenti (ne L'Assedio l'essenziale è sempre invisibile, nascosto dietro le palpebre o sotto la pelle dei protagonisti), bertolucci usa poche parole, molte note (Mozart, Grieg, Beethoven, ma anche Papa Wimba o Salif Keita, perché lei non capisce la sua musica più di quanto non capisca lui). E soprattutto tesse una tela di allusioni e segnali più eloquente di qualsiasi dialogo.
    La scala a chiocciola che unisce i piani alti, dove vive lui, e il seminterrato. Il montavivande che veicola muti messaggi d'amore. La casa che lentamente, misteriosamente, si svuota dei suoi oggetti d'arte. La candida caviglia dell'inglese, intravista per caso mentre dorme, immagine di vulnerabilità e abbandono. E poi i piedi nudi di Shandurai sui pavimenti multicolori, l'Africa che di quando in quando si riaffaccia nelle sembianze di un cantastorie, una scena che si conclude a sorpresa come una comica di ridolini, insomma tutta un'alchimia di contrasti (acqua e fuoco, pelle bianca e pelle nera, musica occidentale e ritmi africani, con John Coltrane a fare da trait d'union), esaltata da un montaggio jazzato, quasi che Bertolucci rifacesse al cinema le Aritmie di suo padre Attilio. E tutto per raccontare la storia di un dono, di un sacrificio ("chi cercherà di salvare lapropria vita la perderà, chi la donerà sarà salvato"). Cinema da camera, che viaggia in tutto il mondo. Con buona pace di chi crede che varcare le frontiere sia sempre e solo una questione di mezzi.

Fabio Ferzetti da Il Messaggero del 5 febbraio 1999