Troppo lenta e con pochi dialoghi l'ultima pellicola del regista
Prima proiezione a Milano dell'Assedio di Bernardo Bertolucci, ore 15,20. Un pubblico compunto occupa una trentina di posti nella saletta dell'Odeon destinata ai film di scarso richiamo. Appaiono i titoli di testa, in inglese: qui infatti si proietta la versione originale (con sottotitoli) di questa produzione televisiva italiana "gonfiata" per il grande schermo. Si può dunque presumere che i presenti siano pochi ma buoni, l'élite dei bertolucciani, cinefili raffinati e comunque gente capace di cogliere lo scarno dialogo anche senza traduzione. Ore 16,50, L'assedio finisce nello stesso silenzio del pubblico con il quale era cominciato. Lo rompe uno spettatore sconsolato: "E questo sarebbe un Bertolucci...". Quelli vicini gli rivolgono uno sguardo solidale nella delusione, alimentata dal fatto che certi giornali avevano gridato al capolavoro: "Un film girato con tale maestria, con tale perfezione, che si potrebbe usarlo come un manuale". È stato scritto sull'ultimo Espresso, senza ridere.
Invece L'Assedio è un filmino esile come la vicenda che raconta: è un Ultimo tango a Roma con minimo sesso, niente burro e molta calligrafia. Siamo entrati nella società permissiva multirazziale? E allora Bertolucci fa innamorare un pianista bianco, inglese e scapolo, residente a Roma (David Thewlis), di una sdudentessa africana di Medicina (Thandie Newton), amica di un omosessuale italiano (Claudio Santamaria) che - dice - "per lei farebbe un'eccezione" alle sue propensioni erotiche. Attorno al pianoforte s'intrecciano gli sguardi di lui a lei che spolvera, che recupera scarpe sotto il letto, che rifàil medesimo. Poi lei scende nel sottoscala, dove lui la ospita e dove getta strani messaggi, come un foglio di spartito con un bel punto interrogativo. Sottintende un "mi ami?", ma animi prosaici penseranno a un quesito più diretto.
Un soggetto alla moda quello escogitato da Clare Peploe (in Bertolucci) a partire da un racconto di James LAsdun (contenuto in una raccolta edita da garzanti). Non manca l'adulterioin sottofondo: a film finito, il povero marito della ragazza africana ha le corna (forse consumate, forse no, comunque lei non lo vuole più). Però il poveretto è sfortunato fin dall'inizio, quando finisce in galera nel suo Paese perchè èun democratico. E da che cosa si riconosce un democratico, oltre che dalle corna incombenti? Dal fatto che, mimando, insegna ai bambini di una scuola elementare la differenza tra un leader e un boss:il secondo avanza spingendo da parte gli altri col suo pancione.
A Bertolucci non interessa raccontare come una donna giovane e bella per quanto coniugata, abbialo stesso le sue esigenze, se resta sola: non sarebbe una storia nuova, ma sarebbe una storia verosimile. Ancor più che nell'Ultimo tango a Parigi (1972) - Bertolucci vuole descrivere un appartamento. Se quello di ventisette anni fa era vuoto, questo è abitato, ma si svuota un po' alla volta, perchè l'inquilino, che l'ha ereditato e che vi vive dando lezioni di piano, liquida un po' alla volta l'essenziale ma raffinato arredamento per procurarsi il denaro onde far liberare il marito di lei. Quando vende perfino il pianoforte, cioè il suo modo di guadagnarsi da vivere, lei capisce quanto profondamente e discretamente luil'ami. èil momento migliore del film, ma l'idea che la gratitudine generi, o anche solo liberi, l apassione femminile è solo un'illusione maschile.
La newton è volentieri discinta - a Roma le notti estive sono molto calde - e fa sogni erotici durante i quali titilla gli importanti capezzoli. Thewlis apre e chiude la bocca e strabuzza gli occhi come McRoney nella tv in bianco e nero di trent'anni fa. I romani riconosceranno vicolo del Bottino, accanto alla scalinata di trinit6agrave; dei Monti, tutti gli altri constateranno la vicinanza della stazione della metropolitana e la propensione della macchina da presa nell'inquadrarla.
Per vendere appartamenti "prestigiosi", le agenzie immobiliari potranno d'ora in poi rivolgersi a Bertolucci perhcè giri uno spot glamour e forse sapranno imporgli una lunghezza congrua: un'ora e mezzo di Assedio infatti è un po' troppo.
Maurizio Cabona da Il Giornale del 7 febbraio 1999