Fra
il 1944 e il 1945, in meno di 24 mesi dunque, sono stati celebrati due processi
di grande interesse storico, uno a Verona e l’altro a Norimberga.
Pur profondamente diversi per
rilevanza e per la tipologia dei reati trattati sono peraltro accomunati dal
veneficio dell’ex post facto. Se il carattere retroattivo della legge
pare non aver offeso con il suo stridore le orecchie dei magistrati di
Norimberga, quasi che i giuristi anglosassoni, o almeno parte di essi, non lo
considerassero un problema, altrettanto non si può dire per chi abbia fondato i
suoi studi giuridici sul diritto romano che di questo principio fa, al contempo,
le sue fondamenta e l’architrave.
Nella sentenza di Verona, infatti, il presidente del Tribunale Speciale
Straordinario, avv. Aldo Vecchini, invocando il “combinato disposto degli
articoli 1 lettera a) e 241 Codice Penale”, che parimenti prevedeva la
pena di morte, sembra aver voluto scientemente ridurre la portata della
retroattività della norma, legalmente peraltro concessagli dall’art. 2 del
Codice Penale tuttora in vigore.
Anche se questo lavacro non può giustificare appieno il processo di Verona è
pur vero che ne rappresenta almeno una attenuante.
Un
aspetto a nostro avviso importante nel turbinio di articoli di legge citati e
applicati a Verona, è il giuramento che gli imputati tutti avevano prestato e
che, a mo’ di memento, era riportato, dal 1927, sul retro di quella
tessera del PNF che tutti loro avevano:
Giuro di eseguire
senza discutere gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se
necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione Fascista.
Certo,
siamo ancora lontani dal Führerprinzip della Germania nazionalsocialista
e si potrebbe obiettare che non veniva espressamente indicato un rapporto di
univoca identità fra la figura del Duce e la “Rivoluzione Fascista”, anche
se, per oltre vent’anni, questa identità non era stata mai messa in dubbio.
Resta il
fatto che questi uomini, questi gerarchi, questi fascisti, votando l’or-dine
del giorno Grandi – nella stesura definitiva elaborata da Bottai – avevano
sposato la tesi che il fascismo aveva fallito e che il re avrebbe salvato il
salvabile nella maniera e con le personalità a lui più gradite.
Indipendentemente
da considerazioni legate ad aspetti personali e di gratitudine verso chi aveva
favorito la loro brillante carriera, è difficile riuscire a conciliare la
fedeltà alla “Causa” con la richiesta di passare poteri e funzioni a chi
fascista non era.
Il vero
fallimento del regime erano loro, un pugno di gerarchi miracolati dal ventennio
che, in un momento tragico, invece di radunare le forze e mostrare quella
fermezza e determinazione morale e quella fedeltà che ci si poteva e ci si
doveva aspettare da loro non sono stati in grado di intraprendere alcunché se
non il tradimento di quell’idea che da vent’anni asserivano di amare e
avevano giurato di servire.
Ne
abbiamo tratto l’avvilente sensazione che più di un manipolo di arditi
rivoluzionari fossero una congrega proto-democristiana pronta a qualsiasi
sacrificio (altrui) pur di salvare la propria carica, il proprio potere, la
propria sicurezza. A fronte di tutto questo la loro pur triste fine era
moralmente e politicamente giusta e ineluttabile.
Meno
giusta la via seguita per decretarla.
Siamo
profondamente convinti che lo stesso risultato, lo stesso esempio, forse anche
più forte, lo si sarebbe potuto ottenere senza un processo in un qualsiasi
cortile di Maderno.
Da un
punto di vista storico, però, i verbali del processo ci offrono la possibilità
di ricostruire con ampiezza un evento come quello del 25 luglio che riveste, per
la nostra storia nazionale, una grande importanza.
Alla
trascrizione degli atti veri e propri abbiamo fatto precedere gli antefatti del
processo, vale a dire l’ordine del giorno Grandi, la composizione del Gran
Consiglio nella seduta del 24 luglio, il facsimile del verbale della votazione,
il decreto che istituiva il Tribunale Speciale Straordinario, la sua
composizione e l’ordine di cattura spiccato nei confronti degli imputati.
Seguono
la parte istruttoria, fedelmente trascritta, e così pure il dispositivo della
sentenza e la sentenza in extenso. Più carente è la quantità, non la
qualità, del materiale relativo al dibattimento che, nonostante la nostra buona
volontà e la disponibilità dimostrata dai funzionari dell’Archivio di Stato
di Verona e di quello Centrale di Roma, non siamo riusciti a ricomporre nella
sua interezza. Per questo motivo abbiamo ritenuto opportuno riportare le pagine
che l’avv. Cersosimo, che ben conosceva il processo di Verona per avervi
partecipato in un ruolo chiave, aveva dedicato, già dal 1949, al dibattimento.
Questa maggiore stringatezza non compromette peraltro né la comprensione
dell’aspetto storico né quella giuridico-processuale. Infatti, com’è
ampiamente risaputo e ha recentemente ribadito il magistrato Ercole Aprile in
una conferenza tenuta agli studenti di diritto dell’Università di Lecce (studigiuridici.unile.it)
…nel
processo di stampo inquisitorio, quindi, l'imputato è in una posizione
subordinata rispetto al giudice che, a sua volta, non è soggetto in grado di
valutare obiettivamente la questione portata alla sua attenzione; processo
espressione di una società nella quale è irrilevante il singolo individuo e
conta solamente il fare giustizia; processo tipico dei regimi politici assoluti.
Il processo penale disciplinato dal codice Rocco del 1930 era definito “di
tipo misto”, in quanto prevaleva: il carattere inquisitorio nella fase
dell'istruttoria (segretezza; ruolo predominante del giudice istruttore
nell'istruzione formale, in cui si sommavano le funzioni accusatorie e quelle
decisorie; largo impiego della carcerazione preventiva, si pensi alla disciplina
del mandato o all'ordine di cattura obbligatorio; alla posizione di soggezione
dell'imputato e del suo difensore rispetto alle iniziative affidate
esclusivamente all'organo giudiziario), ed il carattere accusatorio nella fase
del dibattimento (oralità e pubblicità, acquisizione delle prove nel
contraddittorio). In realtà, chi ha vissuto il periodo dell'applicazione del
codice di procedura penale oramai abrogato, sa bene che la prima fase finiva per
prevalere sulla seconda, poiché i risultati conoscitivi acquisiti durante
l'istruttoria transitavano senza grosse modifiche nel dibattimento, 'simulacro'
di un confronto che veniva mortificato e che si traduce in mero commento di
quanto già a disposizione, delle prove assunte unilateralmente
dall'accusatore...
La netta
prevalenza della fase istruttoria su quella dibattimentale ci consente inoltre
di comprendere come in poche ore, dalle 10,05 alle 13,40 per la precisione, la
corte abbia potuto stendere una sentenza manoscritta di ben 75 pagine [vedere
facsimile riprodotto nella pagina seguente]. Evidentemente
era già stata in parte, se non in toto, scritta in precedenza, ma questo
fatto, date le caratteristiche del processo inquisitorio, non deve destare
soverchia sorpresa. I giudici da tempo avevano avuto modo di studiare gli atti e
questo, più che l’ipotesi di una sentenza preconfezionata spiega la
loro rapidità.
In
appendice abbiamo inserito dei cenni biografici per ognuno degli imputati, la
ricostruzione che l’allora ministro Acerbo ha fatto (alcuni anni dopo,
peraltro) della seduta del Gran Consiglio del 24 luglio e di alcuni episodi ad essa
antecedenti e successivi ed infine, per una migliore comprensione, l’enun-ciato
degli articoli di legge citati nel corso del processo.
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