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Prof. Demetrio Neri
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A proposito di bioetica                            Torna all'indice delle interviste

 

Colloquio con il Docente di Bioetica

presso l'Università degli Studi di Messina,

il Prof. Demetrio Neri

 

Intervistatore: Caro prof. Neri, Lei è ordinario di Bioetica e direttore del Dipartimento di Filosofia. Può descrivere la struttura e le finalità del suo corso?

Risposta: Poiché insegno Bioetica nella Facoltà di Scienze della formazione e nella Facoltà di Medicina dell’Università di Messina, potrei scherzosamente dire che sto preparando i futuri pazienti (bioeticamente consapevoli) per i futuri medici (bioeticamente consapevoli). Fuor di battuta, il primo corso è finalizzato soprattutto a far acquisire agli studenti la dimensione etico-filosofica della bioetica, mentre il secondo punta maggiormente (ma non senza una buona dose di preparazione di base in etica) sulla bioetica clinica, sia (per riprendere la terminologia di una successiva domanda) nel contesto della pratica medica quotidiana (ad es. il tema del consenso informato), sia nel contesto delle situazioni di confine (ad es., le scelte di fine vita o le nuove frontiere della ricerca biomedica). Il corso monografico in genere è dedicato a un tema di attualità: per ora il tema è quello delle cellule staminali e della clonazione, cui ho dedicato il mio ultimo libro.

I: Tra le varie Sue attività si segnala quella di coeditore di “Bioetica. Rivista interdisciplinare”. Può spiegarci di cosa si tratta?

R: Bioetica. Rivista interdisciplinare (ed. Zadig, Milano) è l’organo ufficiale della Consulta di Bioetica, un organismo privato creato nel 1989 dal neurologo Renato Boeri con lo scopo di favorire il dibattito bioetico in Italia su basi laiche e pluraliste. Questo indirizzo ispira la rivista, che è ora al suo XI anno ed è diretta da Maurizio Mori. La rivista dispone di un Editorial board formato dai più noti studiosi italiani e stranieri ed è uno dei pochi casi di riviste italiane che sottopone gli articoli a una peer review, che garantisce l’alta qualità degli studi pubblicati.

I: Lei è, inoltre, membro della Commissione Dulbecco, della Consulta di Bioetica e del Comitato Nazionale per la Bioetica. Può descriverne brevemente le finalità e illustrarci la sua attività all’interno di queste organizzazioni?

R: La Commissione Dulbecco è stata una Commissione ad hoc che ha lavorato negli ultimi tre mesi del 2000 per elaborare una relazione sulle possibilità terapeutiche prospettate dalla ricerca sulle cellule staminali. Il suo lavoro è terminato il 27 dicembre del 2000 con la presentazione alla stampa di una relazione che, sul punto cruciale della sperimentazione sugli embrioni, ha registrato una netta spaccatura: 18 membri (tra cui Dulbecco e Rita Levi-Montalcini) hanno votato a favore di una soluzione che, in sostanza, coincide con la posizione che, a larga maggioranza, si trovava già espressa nel documento presentato a fine ottobre 2000 dal Comitato nazionale per la Bioetica. Tale soluzione consente la sperimentazione sugli embrioni cosiddetti “soprannumerari”ed è la soluzione più condivisa anche a livello internazionale.  Sette membri della Commissione Dubecco (tra cui il card. Tonini) hanno espresso il loro dissenso da questa posizione. E’ forse per questa ragione (l’aver mostrato che nel dibattito bioetico pluralistico la posizione della Chiesa Cattolica è in minoranza) che questo documento è sparito dalla circolazione: non è che è stato discusso, criticato ed eventualmente rigettato in sede politica, è stato semplicemente ignorato.

Il Comitato Nazionale per la Bioetica è un organismo consultivo stabile, alle dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri. E’ stato creato nel 1991 da Giulio Andreotti e attualmente è presieduto da Francesco D’Agostino. Uno dei sui compiti fondamentali è quello di “tener d’occhio” l’evoluzione della ricerca biomedica, in particolare quella dei settori più avanzati, per elaborare pareri anche in vista della predisposizione di atti legislativi. Personalmente penso però che sarebbe sbagliato interpretare il ruolo del CNB nei termini di una attività tutta interna alle istituzioni politiche: direi anzi che questa attività istituzionale viene valorizzata al massimo quando il CNB sa proporsi come interlocutore della società civile, come una sorta di “interfaccia” tra società e istituzioni. Vorrei rinviare, in proposito, agli atti di un Convegno tenutosi a Roma il 23 maggio 2002 (Quale Comitato Nazionale per la bioetica? Prospettive a confronto), pubblicati sul n.69, 2003 di Notizie di Politeia. Per informazioni sull’attività del CNB, si può consultare il sito www.palazzochigi.it/bioetica.

I: La bioetica è disciplina recente. Una delle domande che poniamo più di frequente riguarda l’affermazione di Toulmin, secondo cui l’etica è stata riportata in vita dalla medicina, che ha avuto il merito di chiamarla fuori dalle inconcludenti riflessioni metateoriche e di invitarla a non sottrarsi alle questioni bioetiche. Qual è la Sua posizione in merito?

R: In linea di massima sono d’accordo con Toulmin, nel senso che tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 vengono a maturazione tutta una serie di fenomeni (in parte interni alla medicina e alla ricerca scientifica — il 1971 segna l’inizio della grande avventura dell’ingegneria genetica, che secondo me ha funzionato, per così dire, da fattore di coagulazione —, in parte esterni, di tipo culturale e sociale) che hanno creato l’humus sul quale è nata questa nuova disciplina. Che cosa c’è di nuovo? Ancor oggi è difficile dirlo, ma provo a enucleare tre punti. In primo luogo, l’esigenza di adottare una metodologia interdisciplinare (preferirei dire, transdisciplinare), tale da consentire di approfondire in modo organico  (cioè intrecciando i linguaggi specialistici e non per semplice giustapposizione) l’insieme dei problemi morali, giuridici, sociali ed economici posti dagli avanzamenti della ricerca scientifica e dai nuovi modi di nascere, curarsi e morire degli esseri umani. In secondo luogo, l’orientazione verso lo spazio pubblico della discussione etica, la necessità cioè di tirar fuori gli specialisti dalle aule accademiche, chiamandoli a confrontarsi nell’arena della discussione pubblica e non più sui grandi sistemi o sui principi ultimi, ma sulla rilevanza pratica delle costruzioni teoriche, ossia sulla capacità dei sistemi di pensiero astrattamente costruiti di formulare indicazioni normative per la soluzione dei problemi affrontati. Infine, l’esigenza di strutturare questo nuovo forum pubblico in maniera tale da neutralizzare la connotazione ideologica associata al termine etica. Credo che questo sia l’aspetto maggiormente innovativo sul piano culturale: fin dall’inizio, la bioetica si è presentata come un discorso caratterizzato dal fatto che i partecipanti alla conversazione morale si impegnano a puntare sulla forza razionale degli argomenti in base ai quali determinate posizioni normative vengono raggiunte; e ciò perché  l'appello alla razionalità  sembra il più adatto a costituire il terreno comune  per un dibattito  libero e pluralistico,  l'unico compatibile con  un mondo nel quale si conviene di riconoscere che esistono differenti stili di vita e di pensiero morale , differenti (e talora, in qualche misura, inconciliabili) concezioni ragionevoli della vita buona. Puntare sulla forza razionale degli argomenti è un buon modo per soddisfare l’esigenza di “neutralizzazione”: una posizione si raccomanda non perché è sostenuta da questa o quella auctoritas, ma perché è fondata su buoni argomenti razionali. In questo senso, il luogo teorico della bioetica è quel terreno, certo di difficile delimitazione, che sta tra l’etica e il diritto, quello sul quale i disaccordi che persone per bene e ragionevoli possono nutrire su questa o quella questione diventano disaccordi pubblici che, spesso, richiedono una soluzione normativa. Direi che il discorso bioetico comincia dopo che le etiche hanno fatto il loro lavoro e prima che il diritto cominci il suo.

I: Se si fa riferimento alla connessione logica di agire ed etica, sottolineata da Jonas, «dovrebbe derivare che la mutata natura dell’agire umano richiede anche un mutamento dell’etica». Cioè, è perfettamente legittimo che ci si ponga la domanda di Agazzi “Quale etica per la bioetica?” ? E, più in generale, oltre la bioetica, è dunque necessario ripensare l’etica? Qual è il suo pensiero al riguardo?

R: Da quanto detto nella precedente risposta si comprende facilmente come, a mio parere, la domanda “quale etica per la bioetica?” sia mal posta, in specie se — come accade, ad esempio, in Italia — sottende l’idea che esista una sola etica (vera), che quindi può egemonizzare la bioetica. Sarebbe un tradimento del modo stesso in cui la bioetica è nata. E’ per questa ragione che io contesto continuamente espressioni come “bioetica laica”, “bioetica religiosa” (peggio ancora “cattolica”). La bioetica è nata come impresa filosofica secolare, essere secolare è intrinseco alla sua natura: uno dei “padri fondatori”, Daniel Callahan (peraltro cattolico) ha scritto che “per fare accettare la bioetica la prima cosa che si dovette fare fu di mettere da parte la religione”. Callahan non voleva certo dire che per fare bioetica fosse necessaria una professione di ateismo: basta, del resto, scorrere i nomi dei primi bioeticisti (in massima parte teologi morali cristiani) per comprendere che non è questo il punto. Il punto è che la bioetica è ulteriore rispetto alle varie forme di etica, è un terreno sul quale le varie etiche possono incontrarsi e scontrarsi nella ricerca di soluzioni quanto più condivise possibile ai vari problemi. E’ quindi un terreno al quale si può accedere da tanti punti di vista, posto che chi voglia accedervi accetti due elementari vincoli: il riconoscimento del pluralismo e l’appello alla razionalità pratica. Altrimenti fa altre cose, ad esempio la vecchia e rispettabilissima morale medica a fondamento teologico. So bene, ovviamente, che alcuni sostengono di fare bioetica limitandosi a riproporre le loro incrollabili certezze morali: niente di male, la bioetica è il campo della libertà e dunque ognuno è libero di fare bioetica come vuole, esattamente come ognuno è libero, ad esempio, di pensare di fare fisica limitandosi a chiosare le opere di Aristotele. Ci limiteremo a dire che, da Galileo in poi, nella comunità scientifica mondiale fare fisica è diventata un’altra cosa.

I: Una delle questioni che la bioetica solleva oggi è il suo riferirsi molto più spesso a dilemmi radicali, a situazioni critiche, che non a problemi quotidiani. Lei ritiene che il vero riscatto della morale e le vere responsabilità a cui è chiamata risiedano nel suo coinvolgimento da parte della tecnica, della medicina, della biologia o, piuttosto, nel suo poter, nel suo dover aprirsi alla quotidianità? Piovani asserisce che «l’attività morale non appartiene soltanto a momenti-limite, in cui possa culminare, talvolta, una dubbiosità costretta a risolversi in una decisione ardua o dolorosa, ma domina il quotidiano, continuamente operando per differenziare le differenze, per allarmare le inerzie. L’inquietudine del valore sta dentro l’opacità della giornata più comune; s’insinua improvvisa nell’automaticità di una routine; incrina lo spessore più fitto di un comportamento ottuso; turba, inattesa, la sonnolenza del conforme o s’inserisce tra le sue pieghe». Ha ragione Giovanni Berlinguer nel volere, un po’ come Peter Singer, distinguere una “bioetica di frontiera” da una “bioetica quotidiana”? Qual è la Sua opinione?

R: Io non mi trovo a mio agio con questa distinzione tra una “bioetica di frontiera” e una “bioetica quotidiana”. Non ci vedo un grande spessore teorico. Tutto dipende – e il testo di Piovani è esemplare in proposito – dai vissuti delle persone, dalle situazioni in cui possono trovarsi le persone, anche dentro “l’opacità della giornata più comune”. Mi sono occupato a lungo, e continuo ad occuparmi, di eutanasia e, più in generale, delle questione di fine vita: è bioetica di frontiera o quotidiana? Provate a chiederlo alle persone che si trovano nelle condizioni terminali e che ogni giorno e ogni notte devono far fronte alla sofferenza e al dolore. O dipende dai numeri? Il disagio e talora la sofferenza legati all’infertilità tocca un numero limitato di persone: discutere degli strumenti per superare tale disagio è bioetica di frontiera o quotidiana?  Se poi la distinzione vuol alludere a una distinzione di valore, o meglio, a una collocazione dei problemi bioetici in una ipotetica scala di priorità sul piano mondiale, allora posso essere anche d’accordo, ad esempio, che il problema della fame e della morte per malattie comuni nelle parti più povere del mondo è tremendamente prioritario rispetto al problema, ad esempio, del testamento biologico (un documento scritto col quale una persona può dare indicazioni circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera essere sottoposto quando, nel decorso di una malattia, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o dissenso), oppure rispetto al cosiddetto “diritto di morire con dignità”. Ma è pensabile che finché i problemi più gravi non siano stati risolti non si debbano affrontare i problemi certo meno gravi sul piano della scala delle priorità?

I: Pessina nel suo lavoro “Bioetica. L’uomo sperimentale” illustra gli ipotetici scenari che potrebbero configurarsi in seguito a distorsioni dei risultati ottenuti dalla conoscenza del genoma umano. Eventuali screening di massa potrebbero suscitare nuove forme di “pulizia genetica” volte a selezionare «l’accesso al lavoro, o a  condizionare la stipula di polizze di assicurazioni, o la fruizione del sistema sanitario». Qual è il suo pensiero di fronte a una tale ipotesi?

R: Come ho accennato nella quarta risposta, sono convinto che proprio i problemi sollevati dalla scoperta del DNA ricombinante e dall’ingegneria genetica abbiano funzionato come fattore di catalizzazione per la nascita della bioetica. Possiamo certamente dire che a noi è toccato in sorte di vivere nell’epoca della rivoluzione biologica e i problemi che ciò pone sono di grandissimo spessore, anche filosofico, perché ci costringono a riformulare domande antichissime sull’essere umano, il suo posto nel mondo e il suo destino futuro. E’ certamente anche comprensibile che di fronte ai rapidissimi avanzamenti della ricerca scientifica si possa provare disagio e inquietudine, come del resto è accaduto tutte le volte che l’umanità si è trovata di fronte a mutamenti radicali. Ma, tutto sommato (e pur con i grandi squilibri che conosciamo), finora l’umanità se l’è cavata nel governare il cambiamento e io confido che se la caverà anche stavolta, nonostante i soliti profeti di sventura (ultimo, in relazione all’ingegneria genetica, Jurgen Habermas). Del resto, non abbiamo alternative: o noi acquisiamo la saggezza necessaria a governare (il che non vuol dire “guardare con diffidenza” o “tentare di ostacolare”) il cambiamento epocale in corso, oppure saremo costretti (forse non noi, ma certo i nostri discendenti) a subirne le conseguenze, quali che esse siano. Per sviluppare la prima alternativa, è necessario avere un atteggiamento appropriato quando si va a vedere cosa avviene nei laboratori di ricerca (“La bioetica in laboratorio” è il titolo del mio ultimo libro). Non voglio fare un discorso teorico, che sarebbe troppo lungo; né voglio entrare in polemica con Pessina e il suo uomo sperimentale. Vorrei invece illustrare tre possibili atteggiamenti di fronte agli sviluppi della ricerca in biologia molecolare. Il primo è un atteggiamento alla Hans Jonas, che prescrive di ragionare partendo dall’ipotesi più catastrofica possibile e, quindi, predica un radicale astensionismo, come se astenersi fosse sempre sinonimo di innocenza morale. Il risultato di tale atteggiamento non può che essere l’invito a chiudere i laboratori di biologia molecolare: è un atteggiamento sterile, buono magari a purificare la coscienza di chi lo coltiva, ma del tutto improduttivo sul piano del governo della scienza. Il secondo atteggiamento è speculare al primo ed è quello della bioetica “giustificazionista”, che esemplifico con l’immagine hegeliana della nottola di Minerva, che si alza sul far della sera, quando il processo del reale si è concluso e non resta che prenderne atto e giustificarlo. Il terzo atteggiamento (quello che coltivo io) può essere esemplificato con l’atteggiamento che Benedetto Spinoza (nella Prefazione alla terza parte dell’Etica) suggeriva nei confronti delle passioni: sono parte costitutiva dell’essenza dell’uomo e quindi è  del tutto sterile deprecarne l’esistenza o stigmatizzarne i possibili effetti. La cosa migliore è mettere in campo tutta la razionalità possibile per conoscerne l’intima dinamica e governarla per il meglio. Non è facile praticare questo atteggiamento; richiede molta pazienza analitica e anche la frequenza di buone biblioteche scientifiche. I primi due invece sono molto facili da praticare: basta dire no a tutto oppure sì a tutto. Forse sono anche più appaganti sul piano della notorietà pubblica, che, almeno in Italia, sembra arridere a chi la spara più grossa, indipendentemente dalla conoscenza dei dati di fatto scientifici.

I: Tra i Suoi interessi troviamo il tema dell’eutanasia e le questioni bioetiche alla fine della vita umana. Dalla Commissione della Harvard Medical School del 1968 in poi, si sono succedute molte discussioni che, più che far luce defintiva sulla definizione di morte cerebrale, hanno mostrato tutta la difficoltà di intervenire su questo spinoso tema. Morte di tutto il cervello, morte del tronco encefalico, morte corticale: quando si può dire che un essere umano è morto? Può aiutarci ad orientarci in questo complesso e delicato tema?

R: Il problema posto dalla domanda è di estrema complessità e non si presta a risposte rapide. Diciamo intanto che il tema dell’eutanasia si situa a un livello differente da quello della definizione di morte: l’eutanasia, comunque interpretata, implica una anticipazione del momento della morte e riguarda il processo del morire e quel che vi avviene, soprattutto quando la vita biologica declina secondo traiettorie non coincidenti col declino della vita biografica, traiettorie che alcuni possono ritenere un’offesa alla loro concezione della vita.

Ma anche la domanda “quando si può dire che un essere umano è morto?” ha riflessi di natura etico-filosofica, da cui dipende la scelta di questa o quella definizione e, quindi, dei criteri di accertamento della morte. La morte di tutto il cervello è la definizione oggi più accolta e i criteri di accertamento sono stabiliti per legge. In Gran Bretagna vige invece la definizione che fa riferimento al tronco encefalico, mentre si discute — ma non ha per ora riflessi di natura legislativa — sulla definizione che fa riferimento alla morte della corteccia, dove risiedono le attività superiori della coscienza e della vita di relazione. Tutto dipende da ciò che si intende per “persona” e forse non è sbagliato pensare che anche in questa materia dovrebbe essere fatto spazio alle convinzioni delle persone. Ad esempio, io potrei pensare che il mio essere persona è legato alle attività che hanno il loro fondamento biologico nella parte corticale del cervello: in caso di cessazione dell’attività corticale, ma in presenza del funzionamento del tronco encefalico, perché dovrei essere tenuto in vita (biologica) in quello stato definito come “stato vegetativo permanente”?

I: Infine, una domanda che poniamo a tutti i nostri interlocutori. Cosa pensa del futuro della filosofia? Il Prof. Mordacci ritiene che se non si attuano dei cambiamenti nei programmi di studio e delle connessioni valide tra filosofia e scienze biomediche e psicologiche, il futuro delle scienze filosofiche rischia di essere ridotto ad un ruolo museale. Qual è la Sua opinione?

R: Sono interamente d’accordo con Mordacci. Solo due considerazioni. Qualcuno pensa seriamente che la filosofia possa continuare a riflettere sui suoi eterni problemi senza fare i conti con quel che sta accadendo nel mondo delle scienze della vita? Abbiamo dimenticato la lezione impartita da Kant nella Prefazione al Tentativo di introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative, quando osservava, ad esempio, quale giovamento potrebbe trarre la metafisica dal porre i dati della scienza (allora era la geometria) a fondamento delle proprie considerazioni sulla natura dello spazio? Ma qui il discorso sarebbe lungo. Una seconda osservazione riguarda il cambiamento nei programmi di studio della filosofia.  Alcuni anni fa, quando era Ministro il prof. Luigi Berlinguer, il problema del cambiamento strutturale dell’insegnamento della filosofia è stato all’ordine del giorno ed ebbi il privilegio di far parte di una commissione ministeriale (dove c’erano studiosi del calibro di Giovanni Reale, Enrico Berti, Remo Bodei, Salvatore Veca ed altri) incaricata di formulare una proposta di cambiamento. Ci siamo trovati d’accordo su alcuni punti: a) cambiare, per non perire; b) intendere l’insegnamento (rinnovato) della filosofia come parte del bagaglio culturale del cittadino, come un diritto di cittadinanza; c) di conseguenza, proporre l’inserimento della filosofia nei saperi fondamentali della scuola di base, nell’ultimo biennio della scuola di base. Ma come? Non si poteva certo riproporre la solita carrellata di personaggi che si parlano addosso e sembrano impegnati solo a contraddirsi l’un l’altro. Abbiamo invece recepito e sviluppato l’indicazione di un documento del ’98 su I contenuti essenziali per la formazione di base che prevedeva due versanti intorno ai quali strutturare l’insegnamento della filosofia: le questioni di verità e le questioni di senso e di valore, al cui sviluppo la bioetica (ed era questa la ragione della mia presenza nella commissione) poteva dare un contributo didatticamente efficace: qualunque insegnante di qualunque disciplina sa bene che né gli obiettivi cognitivi, né tanto meno quelli formativi propri della disciplina, sono seriamente perseguibili se l’insegnamento non riesce a legarsi agli interessi dei giovani studenti.  L’idea generale era che la filosofia (il “fare filosofia”, non l’apprendere cosa diceva Platone o Cartesio) potesse contribuire a quella “educazione al pensare” intesa come la competenza primaria e fondamentale che la scuola dovrebbe permettere ai giovani di acquisire. Poi le cose “politiche” cambiarono e di quell’idea si sono perse le tracce. Credo che sarebbe bene riprendere quella linea di riflessione, anche perché — per parlare francamente — senza un adeguato ruolo nella formazione la stessa riflessione filosofica accademica rischia di confinarsi a un ruolo marginale e, appunto, museale.

I: Caro professore, nel ringraziarla per la cortese disponibilità, ci auguriamo di poterLa avere nuovamente avere come gradito ospite della nostra rivista e di poterLa invitare per un incontro presso la nostra università.

R: Vi ringrazio per l’ospitalità sul Quaderno e dichiaro la mia disponibilità per future collaborazioni.

 

Il Prof. Demetrio Neri

insegna Bioetica presso

l’Università degli Studi di Messina

 

A cura di  Massimo Vittorio

 

19/04/03

 

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Last modified: 03/30/04