Accerchiamento. Blocco. Strategia. Forza. Conquista. Cos'altro associate alla parola "assedio"? Isolamento? Invasione? Sottomissione? Resistenza? Qualsiasi cosa vi venga in mente, il nuovo film di Bernardo Bertolucci la rovescerà nel suo contrario. L'assedio è liberazione, apertura, ripresa, scoperta. Potrebbe essere un Ultimo tango a Parigi rivisto attraverso gli occhi del Piccolo Buddha, con una sensualità diffusa al posto dell'erotismo aggressivo e la rinuncia invece del possesso.
Girato in ventotto giorni in un appartamento che dà su Piazza di Spagna (ma degli esterni si vede quasi solo il vicolo in cui è situato il palazzo, adiacente alla metropolitana), aperto da un prologo in Africa dallo stile semidocumentaristico (ma il paese in cui è ambientato è ímmaginario), L'assedio è
costruito attorno alla figura di Shandurai (Thandie Newton - Intervista col vampiro, Jefferson in Paris, Beloved), giovane africana che a Roma studia medicina e, in cambio di vitto e alloggio, lavora come colf per Mr. Kinski (David Thewlís - Naked, Sette anni in Tibet, Il grande Lebowski), un compositore inglese eccentrico e solitario. Lei ha lasciato un paese in balia della dittatura e un marito in carcere per motivi politici. Lui si è trasferito a Roma dopo aver ereditato da una zia una casa dal fascino un po' decadente, piena di oggetti d'arte antichi, disposta su due piani collegati da un'ampia ed elegante scala a chiocciola. Lui vive nel piano nobile, suonando Mozart, Beethoven, Grieg, Bach, Scriabine, Chopin. Lei si è sistemata nel piano inferiore, ascoltando Papa Wemba e Salif Keita. Per entrambi, la casa è un rifugio e la scala è il luogo dove le note provenienti dalle rispettive stanze si infrangono l'una contro l'altra, generando accordi impossibili.
Poi lui s'innamora di lei, la corteggia timidamente, le si dichiara con goffaggine e disperazione. Non ha speranze e ritorna al suo
pianoforte, svuotando a poco a poco l'appartamento di tutte le cose più preziose, finché «non c'è più nulla da spolverare», come gli
dice Shandurai. A quel punto Kinski risponde con uno sguardo che pare il sorriso enigmatico della Gioconda...
Anche Bernardo Bertolucci sorride raccontando la genesi dell'Assedio. Si era parlato di Novecento parte III, periodo '68, e invece è spuntato questo piccolo, grande film contemporaneo, tratto da un racconto di James Lasdun (scrittore londinese nato nel 1958, che ha già prestato al cinema una sua novella da cui Jonathan Nossiter ha tratto il suo premiato Sunday) e girato per la tv anche se viene distribuito nelle sale, ma del tutto anomalo rispetto ai prodotti televisivi e così «sperimentale» da risultare agli antipodi anche dei
kolossal da Oscar del regista.
Una rivoluzione silenziosa, quella di Bertolucci, una sorta di improvviso azzeramento, una ricerca che ha preso una direzione diversa da quella annunciata all'indornani di Io ballo da sola.
«L'assedio è unfilm è percorso dai brividi di piacere e di paura di qualcuno che per due anni si è interrogato molta su dove sta
andando il cinema», dice il regista. «Non che io sia arrivato a delle conclusioni, però avverto profondamente un grande cambiamento
storico, epocale, della stessa portata o almeno simile al passaggio dal muto al sonoro o dal bianco e nero al colore. L'ho avvertito l'n
alcunifilrn degli ultimi anni, come Honk Kong Express e Happy Together di Won Kar-Wai, o Vive l'amour e Il buco di Tsai Ming-
Liang. A differenza di tutto il cinema che ho sempre amato e che ho fatto, questi film non ricorrono alla nostalgia del passato, si
nutrono esclusivamente del presente e hanno metabolizzato perfettamente le nuove tecniche del linguaggio per immagini. Fino a
poco tempo fa era imbarazzante vedere il cinema che imitava o scimmiottava la televisione e viceversa. Credo che oggi invece la
televisione sia talmente parte del presente che non si possa non esserne influenzati. Sarebbe come dire che non si è influenzati dal sole, dal vento, dalle nuvole». L'assedio sembra respirare all'aria aperta, non ha nulla di claustrofobico anche se è ambientato in due stanze, è quasi privo di dialoghi, a tutto vantaggio della musica, e al confronto di Io ballo da sola, dove la parola arrivava a solidificarsi visivamente in alcune didascalie, sembra un film muto con accompagnamento musicale. «Per me è un musical», dichiara Bertolucci, «ed è stato fondamentale scrivere ll film con mia moglie Clare, continuando anche durante le riprese. È stata lei a contagiarmi con il suo bisogno di sottrazione, mentre io di solito pratico l'accumulo. Insieme abbiamo svuotato la sceneggiatura proprio come Kinshi svuota la casa, cercando di mantenere l'essenzialità. E dal momento in cui si rinuncia o comunque si diminuisce l'importanza delle parole, ci si ritrova di fronte a quel bellissimo silenzio misterioso del muto, forse privo di chiarezza ma pieno di un'infinita possibilità di interpretazioni per gli spettatori. Con il sonoro, il pubblico è via via diventato sempre più passivo, tutto gli viene detto e spiegato. L'assedio invece dice pochissimo, suggerisce qualcosa, accenna, svela ma poi vela... c'è una penombra che copre i personaggi, le motivazioni degli accadimenti, non c'è più quel bisogno di chiarezza che sentivo prima. Nei film recenti che amo, liberi nel linguaggio narrativo e cinematografico, spesso molte cose mi sfuggono, mi sfugge il significato razionale, ma l'emozione mi colpisce al cuore, il mistero mi cattura... Inoltre nell'Assedio non ci sono comparse, tutto è girato dal vero, inche a Roma, con la macchina da presa nascosta dentro delle piccole cabine o in scatole di cartone. Da molto tempo non provavo un simile senso di libertà. Quando ci sono venti-trenta milioni di dollari da portare sulle spalle, ciò non è possibile. Anche se si lotta contro le idee di compromesso, c'è comunque un peso che magari si può sublimare, ma non ignorare ».
Abbandonando ogni certezza acquisita, Bertolucci è come tornato alle origini. La libertà creativa di cui parla in fondo riporta alla
Nouvelle Vague, ma proprio la Nouvelle Vague è il passato da cui il regista ha preso le distanze. In che senso, allora, è avvenuta la sua conversione al presente? «Oggi non sento più la presenza rassicurante dei modelli, modelli amati e ricercati fuori dalla convenzione, che ha accompagnato non solo il mio cinema ma tutto il cinema degli anni Sessanta. In questo momento provo un certo disagio,
una certa fatica a riguardare un vecchio film. Mi manca un po' la terra sotto i piedi, perché ho sempre vissuto in questa mia
tranquilla passione per il cinema. Negli anni Sessanta dicevo che per un'inquadratura di Godard ero pronto a uccidere e a farmi
uccidere. Adesso non mi esprimerei più così. Sono in un'altra fase e sento che, in questo caso, il personale coincide con una certa
obiettività. Il modo di navigare nel presente che hanno i giovani di oggi possiede una tale grazia, una tale ironia, una tale
naturalezza, che mi viene quasi voglia di perdonare la loro mancanza di conoscenza del passato. È inutile sperare che la memoria di
un diciottenne vada indietro oltre Pulp Fiction. Prima ciò mi angosciava, oggi lo accetto come un dato difatto. In effetti la mia
generazione è tutta costruita sulle radici, sul passato. Il taglio del cordone ombelicale operato dai giovani negli ultimi anni lo trovo... eccitante. Ne sono affascinato perché "io sono una macchina da presa" e la macchina da presa è affascinata da ciò che ha
davanti, si mangia il presente, è il suo nutrimento. E oggi il presente è questo. Per questo sono arrivato al punto
non solo di accettarlo, ma di tentare, se possibile, di subire un piccolo contagio».
Il contagio è avvenuto: il gruppo cechoviano del Chiantishire abita nell'immaginario cinematografico, mentre
Bertolucci, con L'assedio, può "ballare da solo", come l'indimenticabile Lucy Harmon che ha guidato la sua macchina da presa fino al
bivio più difficile.